Vaccinare in modo indiscriminato anziani, gravide, bambini e sanitari può risultare più dannoso che utile?

  1. Alberto Donzelli,
  2. Daniele Agostini,
  3. Paolo Bellavite,
  4. Adriano Cattaneo,
  5. Piergiorgio Duca,
  6. Eugenio Serravalle

1 Medico, specialista in Igiene e Medicina Preventiva, già Direttore Servizio Educazione Appropriatezza ed EBM ex ASL Milano – Consiglio Direttivo e Comitato Scientifico Fondazione Allineare Sanità e Salute

2 Medico, Epidemiologo, membro ISDE (Associazione Italiana Medici per l’Ambiente, parte dell’International Society of Doctors for the Environment)

3 Medico, specialista in Ematologia, già Professore di Patologia Generale Università di Verona

4 Medico, Epidemiologo, già Ricerca su Servizi Sanitari e Salute Internazionale, Centro Collaboratore OMS per Salute Materno Infantile, Istituto per l’Infanzia, Trieste – Gruppo NoGrazie

5 Medico, specialista in Statistica Medica e Biometria, Ordinario Unità di Statistica Medica e Biometria – Dipartimento Scienze Cliniche Ospedale Sacco – Settore Universitario – Università degli Studi – Milano

6 Medico, specialista in Pediatria preventiva, Puericultura Patologia Neonatale, Presidente Associazione Studi e Informazione sulla Salute di Pisa

Premessa degli autori

Gli scriventi fanno riferimento al metodo scientifico e alla medicina basata sulle prove, non intendono essere strumentalizzati da posizioni antivacciniste, ma nemmeno rinunciare a discutere nel merito di specifici vaccini e strategie vaccinali, come si considera normale poter fare con qualsiasi altro farmaco.

Gli autori sottopongono pertanto le proprie conoscenze e valutazioni in tema di vaccinazione antinfluenzale ai colleghi medici, ai decisori in sanità pubblica e a giornalisti scientifici, e sono aperti a ricevere contributi correttivi o integrazioni del documento basate sulle prove più valide.

Auspicano di poterne discutere in opportuni contesti scientifici e istituzionali.
ISBN: 978-88-99318-16-1
DOI: doi.org/10.36131/fioriti202006
Come citare questo libro: Donzelli A, Agostini D, Bellavite P, Cattaneo A,

Duca P, Serravalle E (2020). Vaccinazione antinfluenzale: che cosa dicono le prove
scientifiche. Giovanni Fioriti Editore, Roma.
Finanziamenti: questa ricerca non ha ricevuto finanziamenti.
Conflitti di interesse: gli autori dichiarano l’assenza di conflitti di interesse.

Giovanni Fioriti Editore s.r.l. via Archimede 179, 00197 Roma
tel. 068072063 E-mail: info@fioriti.it
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Messaggi principali
La pandemia di COVID-19 ha indotto il Governo a estendere e rafforzare la raccomandazione di vaccinazione antinfluenzale, e varie Regioni ne hanno ordinato l’obbligo per anziani e personale sanitario.
Ad oggi, però, le ricerche più valide su anziani hanno dimostrato la sua utilità solo in cardiopatici in fase attiva, mentre per non cardiopatici le prove non hanno mostrato una tendenza favorevole. Lo stesso sembra valere per la vaccinazione indiscriminata di gravide e bambini. Anche per sanitari mancano prove valide di benefici netti, e comunque un obbligo non sembra compatibile con l’ordinamento vigente.
La scelta di un vaccino quadrivalente ad alta dose con ceppi diversi da quelli raccomandati dall’OMS sembra un’ulteriore criticità.

Inoltre la vaccinazione antinfluenzale:

  • ha efficacia moderata nei confronti dell’influenza, ma non è efficace verso le ben più numerose sindromi influenzali da virus diversi da quelli dell’influenza
  • in base ad alcuni studi potrebbe aumentare altre infezioni respira­torie (interferenza virale), comprese alcune da coronavirus (anche se mancano prove rispetto al SARS-CoV-2). Non è comunque stato chiarito se sia risultata associata a prognosi migliore negli affetti da COVID-19
  • non consente di distinguere sindromi influenzali da forme iniziali di COVID-19, che richiedono comunque test diagnostici specifici
  • se estesa come deciso da alcune Regioni, a fronte di un bilancio net­to molto incerto tra benefici e danni, comporterebbe pesanti costi organizzativi, finanziari e disagi, in competizione con possibili usi molto migliori delle risorse corrispondenti.

Le migliori prove scientifiche suggeriscono di rinunciare all’obbligo e una moratoria sull’estensione della vaccinazione, finché nuove ricerche valide, pragmatiche, indipendenti da interessi commerciali diano risposte basate sulle prove ai tanti interrogativi sollevati.

Indice
Strutturato per domande chiave;
nel testo le risposte con relativa documentazione

  1. Che cosa si intende per influenza e per sindromi influenzali?
  2. In quale misura il vaccino protegge dall’influenza? E dalle sindromi influenzali?
  3. Quante persone devono ricevere un’iniezione di vaccino antinfluenzale per evitare una sindrome influenzale (che include anche, ma non solo, le influenze)?
  4. La vaccinazione antinfluenzale consente di distinguere una sindrome influenzale da una forma lieve o iniziale di COVID-19?
  5. Esistono mezzi diagnostici che consentano di distinguere rapidamente una sindrome influenzale da una forma lieve o iniziale di COVID-19? 19
  6. Quale potrebbe essere il razionale per introdurre vaccinazioni su larga scala, cioè non mirate a sottogruppi a rischio davvero elevato?
  7. Quali sono le ricerche/studi di maggior validità, che consentono di stabilire con maggior certezza l’efficacia e gli effetti sanitari netti di un intervento sanitario?
  8. Studi osservazionali e “bias (distorsione) del vaccinato sano”. Studi sperimentali.
  9. Ci sono altre condizioni associate in modo sistematico a un’esagerazione dei benefici e della sicurezza di un intervento?
  10. Gli RCT (studi randomizzati controllati) hanno dimostrato benefici della vaccinazione antinfluenzale per anziani con cardiopatia attiva. Ci sono prove da RCT che dia più benefici che danni anche ad anziani non cardiopatici?
  11. Ci sono prove basate sui migliori studi osservazionali che la vaccinazione antinfluenzale in un insieme di anziani dia più benefici che danni?
  12. Che cosa potrebbe spiegare possibili effetti sfavorevoli non banali?
  13. Quali effetti avversi sono riconosciuti?

Bibliografia 56

Giovanni Fioriti Editore
Roma

1 Che cosa si intende per influenza e per sindromi influenzali?

Introduzione

L’influenza è una malattia respiratoria acuta molto contagiosa, dovuta all’infezione da parte di virus influenzali, che si trasmette per via aerea.È stagionale e, nell’emisfero settentrionale, si presenta nel periodo invernale, soprattutto tra dicembre e marzo. Gli agenti causali sono di tre tipi, costituenti il genere Orthomixovirus: il virus di tipo A e il virus di tipo B, responsabili dei sintomi influenzali classici, e quello di tipo C, di scarso rilievo clinico (spesso asintomatico).

Le proteine capsulari, responsabili dell’attacco del virus ai recettori delle cellule dell’apparato respiratorio, si distinguono in: H (emoagglutinina) e N (neuraminidasi). L’emoagglutinina (H) interviene nell’attacco del virus alla membrana citoplasmatica delle cellule infettate e promuove l’ingresso del virus. La neuraminidasi (N) degrada i recettori sulla superficie della cellula infettata, permettendo la liberazione e la diffusione del virus. Le mutazioni lievi o radicali della struttura antigenica dell’emoagglutinina o della neuraminidasi fanno comparire nuovi tipi di virus capaci di superare la barriera immunitaria dell’organismo aggredito. Le proprietà antigeniche delle emoagglutinine dei virus influenzali di tipo A permettono di distinguere 16 specie molecolari, da H1 a H16. Queste, associate a 9 specie molecolari delle neuraminidasi, permettono di classificare i virus influenzali di tipo A in sottotipi di forma “HxNy” (es. H5N1).
Alla base dell’epidemiologia dell’influenza vi è la marcata tendenza dei virus influenzali a variare, acquisendo cambiamenti nelle proteine di superficie (H, N) che permettono di aggirare la barriera dell’immunità presente nella popolazione che ha subito precedenti infezioni influenzali.

Perciò le difese che l’organismo ha elaborato contro il virus dell’influenza che circolava in un certo anno non sono più efficaci per il virus dell’anno successivo, e la composizione del vaccino va aggiornata tutti gli anni.
Esistono per altro molte sindromi respiratorie con sintomi assai simili e spesso confuse con l’influenza in assenza di un tampone che consenta l’isolamento del virus e una conferma sierologica, che è effettuata solo in casi particolari o negli studi con fini di ricerca. Pertanto, nella comune pratica clinica, si parla più correttamente di “sindromi simil-influenzali” (in inglese influenza-like-illness, ILI) o semplicemente di “sindromi influenzali”, perché la diagnosi si basa in genere sui sintomi clinici e sulla concomitanza del periodo epidemico. Molte sindromi influenzali respiratorie e/o gastrointestinali, accompagnate spesso da malessere generale, febbre e sintomi neurologici come cefalea, lacrimazione oculare e fotofobia, insorgenti fuori dal periodo epidemico, sono trasmesse da agenti infettivi diversi dal virus influenzale, con il concorso di un’aumentata suscettibilità del paziente, spesso per la stagione fredda e umida. Analisi accurate dell’infettività stagionale hanno anche dimostrato la possibile sovrapposizione di diversi virus e batteri nel determinare la patologia (van Beek et al. 2017): diversi virus influenzali, coronavirus, rinovirus, metapneumovirus, virus respiratorio sinciziale, virus parainfluenzali e Haemophilus influenzae.

Ai fini delle scelte di sanità pubblica, a maggior ragione se rese vincolanti, è fondamentale sapere che la vaccinazione antiinfluenzale non copre gran parte delle ILI. Si stima che ogni anno il 5-10% della popolazione adulta e il 20-30% di quella pediatrica siano colpite da ILI (ISS 2020), ma solo una parte minoritaria di queste malattie è influenza da virus influenzale. Esistono poi fenomeni pandemici a intervalli imprevedibili: nel secolo scorso si sono avuti nel 1918 (Spagnola, sottotipo H1N1, di gran lunga la più grave), nel 1957 (Asiatica, sottotipo H2N2) e nel 1968 (Hong Kong, sottotipo H3N2).

Sorveglianza epidemiologica
In Italia la sorveglianza dell’influenza è affidata a InfluNet, coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) con il contributo del Ministero della Salute, attraverso una rete di medici sentinella. I medici sentinella, che devono coprire una quota di assistiti che rappresentino almeno il 2% della popolazione regionale, segnalano i casi di sindrome simil-influenzale (ILI) osservati tra i loro assistiti. Quando sospettano un caso di sindrome simil­influenzale lo segnalano alla rete Influnet: è la sorveglianza epidemiologica.
L’influenza e le sindromi influenzali sono clinicamente indistinguibili. Dalla stagione influenzale 2014-2015 la definizione clinica di “sindrome influenzale” è stata modificata per renderla omogenea a quella adottata in Europa dall’ECDC (Decisione della Commissione Europea del 28/04/2008). Per garantire la massima omogeneità di rilevazione, è fornita una definizione clinica di “sindrome influenzale” che include le manifestazioni acute con sintomi generali e respiratori. La definizione si applica a qualsiasi soggetto che presenti improvviso e rapido insorgere di: almeno uno tra i seguenti sintomi generali:

  • febbre o febbricola
  • malessere/spossatezza
  • mal di testa
  • dolori muscolari;
  • e, almeno uno tra i seguenti sintomi respiratori: tosse, mal di gola, respiro affannoso.

Il medico sentinella effettua, su un campione di tali pazienti, un tampone faringeo che è analizzato nei laboratori regionali di riferimento appartenenti alla rete InfluNet, per l’identificazione dei virus influenzali circolanti (sorveglianza virologica). I dati epidemiologici e virologici sono resi disponibili attraverso il rapporto settimanale pubblicato sui siti web del Ministero della Salute e della sorveglianza InfluNet. Prendiamo in esame i dati relativi alla stagione 2018-19, caratterizzata da un’elevata circolazione virale e da un’elevata incidenza di ILI perché quelli della stagione 2019-20 potrebbero presentare particolarità determinate dalla pandemia di Covid-19.
Nell’intera stagione influenzale, il 13,6% del campione ha avuto una ILI, per un totale stimato nella popolazione di circa 8.072.000 casi, con la seguente distribuzione per età: il 37,3% nella fascia 0-4 anni, il 19,8% nella fascia 5-14 anni, il 12,8% tra gli individui di età compresa tra 15 e 64 anni e il 6,2% tra gli anziani di età pari o superiore a 65 anni. Dall’analisi virologica, effettuata su 20.174 campioni, 6.401 (31,7%) erano positivi ai virus influenzali (Istituto Superiore di Sanità 2019).

Il dato non si discosta da quello della media delle cinque stagioni precedenti, dalla stagione 2013-2014 alla stagione 2017-2018. A fronte dei 29.796.000 casi complessivi stimati di sindrome influenzale, i casi di influenza confermati dalle analisi di laboratorio corrispondono a una stima di 9.162.000 casi, il 30,7% (tabella 1.1).
10 Alberto Donzelli et Al.

Tabella 1.1. Casi di influenza° e casi positivi ai virus influenzali 2013/14– 2017/18 (Volpi 2018)

stagioni casi di influenza° campioni biologici analizzati casi positivi ai virus influenzali (in migliaia) 1.049 2.236 1.331 1.591 2.955
influenzali secondo il ministero totale positivi ai virus
2013-2014 2014-2015 2015-2016 2016-2017 2017-2018 (in migliaia) 4.502 6.299 4.877 5.441 8.677 4.426 10.471 8.971 12.034 16.135 val. assoluti 1.033 3.715 2.450 3.518 5.494 in % 23,3 35,5 27,3 29,2 34,1

Totale 29.796 52.037 16.210 9.162

(*) media ponderata della % di positivi ai virus nelle cinque annate epidemiche
° n.d.r.: qui si tratta in realtà di “sindromi influenzali”.

I medici sentinella effettuano i tamponi orofaringei a campione secondo un criterio che ne prevede l’esecuzione nei soggetti che presentano sintomi acuti della malattia; il test non è eseguito su chi presenta sintomi più blandi, e, naturalmente, su coloro che ricorrono all’automedicazione
o che non ritengano necessaria la visita del medico curante. È dunque ipotizzabile che il tasso di influenza sia ancora minore rispetto alle ILI totali.
Alcuni studi sulle cause di ricovero nei mesi invernali dei bambini (i soggetti in percentuale più colpiti dalle sindromi influenzali) indicano la prevalenza di altri virus come il virus respiratorio sinciziale, i virus parainfluenzali, i rinovirus (Schanzer et al. 2006, Kusel et al. 2006). Si stima che la proporzione attribuibile ai virus influenzali in età pediatrica sia inferiore al 10% (Ministero Salute 2003), come confermato dall’indagine effettuata su un campione di popolazione pediatrica napoletana di età < 5 anni che ha prodotto i seguenti risultati:

  • Rinovirus 44%,
  • Adenovirus 18%,
  • Virus respiratorio sinciziale 13%,
  • Virus parainfluenzali 12%,
  • Virus influenzali 7% (Botti et al. 2018).

In assenza di studi adeguati atti a identificare con precisione i virus e batteri che circolano insieme a quello influenzale nella popolazione di tutte le età, il fatto di definire come “influenza” qualsiasi infezione respiratoria e sovrapporre i dati delle sindromi simil-influenzali a quelli dell’influenza crea una visione alterata del fenomeno sia nella popolazione che negli stessi medici e determina una distorsione nella valutazione del peso della malattia – in termini di assenze da scuola e dal lavoro, di spesa a carico del SSN, di complicanze, ricoveri, morti – che ha conseguenze rilevanti per le decisioni di sanità pubblica (Grandori 2009).

Complicazioni e decessi
Dalla stagione pandemica 2009-10 è attiva in Italia la sorveglianza delle forme gravi e complicate di influenza. Sono così definite tutte le infezioni respiratorie acute (severe acute respiratory infections, SARI) e/o tutte le sindromi da distress respiratorio acuto (acute respiratory distress syndrome, ARDS) le cui condizioni prevedano il ricovero in unità di terapia intensiva (UTI) e/o il ricorso alla terapia in ossigenazione extracorporea a membrana (ECMO), in cui sia stata confermata in laboratorio, attraverso il prelievo di un campione clinico, la presenza di un tipo/sottotipo di virus influenzale.
Nella stagione 2018-19, sono stati segnalati 812 casi gravi di influenza confermata in soggetti con diagnosi di SARI e/o ARDS ricoverati in terapia intensiva, 205 dei quali sono deceduti. La tabella 1.2 riassume i casi gravi e decessi dall’inizio della sorveglianza:
Tabella 1.2. Numero di casi gravi e decessi nelle stagioni influenzali 2009/10
– 2018/19

Stagione influenzale Gravi Deceduti
2009-10 582 202
2010-11 405 160
2011-12 36 8
2012-13 175 50
2013-14 72 19
2014-15 445 187
2015-16 86 34
2016-17 161 69
2017-18 587 180
2018-19 812 205

L’ISTAT ogni anno codifica i casi di decesso e, nella sezione malattie del sistema respiratorio (e non nella sezione malattie infettive) attribuisce all’influenza e alle polmoniti le seguenti morti (tabella 1.3)
Tabella 1.3. Numero di decessi per influenza e polmonite 2010-2017 secondo ISTAT
Anno Decessi per influenza Decessi per polmoniti

2010 267 7.239
2011 510 8.383
2012 458 9.276
2013 417 9.068
2014 272 9.141
2015 675 11.632
2016 316 10.837
2017 663 13.561

È indubbio che l’influenza determina un eccesso di mortalità, ed è verosimile che sia i dati ISTAT sia i dati InfluNet possano essere sottostimati, ma non si possono certo imputare ai virus influenzali tutti i decessi da polmonite, e non si può neppure attribuire esclusivamente all’influenza l’aumento dei decessi per tutte le cause che si registra nel periodo dell’anno definito “stagione influenzale”, che comprende ben 28 settimane.

L’attività di monitoraggio della mortalità in Europa è eseguita da Euromomo (EuroMOMO) con l’obiettivo di rilevare e misurare la mortalità in eccesso legata all’influenza stagionale, alle pandemie e ad altre minacce per la salute pubblica. I dati rilevano un’ampia eterogeneità delle morti per tutte le cause nei vari Paesi partecipanti, espressione della differente circolazione virale e delle diverse coperture vaccinali, ma anche di altri fattori di difficile identificazione: in alcuni anni si è registrato un eccesso di mortalità senza una diffusione influenzale di livello alto, o nessun eccesso di mortalità pur in presenza di diffusione influenzale medio-alta (EuroMOMO 2013-14). L’influenza e le politiche vaccinali adottate dai singoli Paesi non sembrano essere gli unici fattori in grado di spiegare l’incremento di mortalità nel periodo invernale, in cui le temperature rigide, soprattutto in alcuni Paesi, potrebbero avere un ruolo importante in particolare tra gli anziani (Vestergaard 2017). “L’aumento di un eccesso di mortalità non specificata coincide con una proporzione aumentata di “influenza” in Europa. […] “Ma fattori diversi dall’influenza, che includono altre infezioni del tratto respiratorio o condizioni dell’ambiente [NdA: ad es. inversione termica, picchi di PM, PM e altri inquinanti, ondate 102,5 di freddo…], possono anche giocare un importante ruolo contributivo (Molbak et al. 2015).”

2 In quale misura il vaccino protegge dall’influenza?
E dalle sindromi influenzali?

La vaccinazione stagionale è valutata sia per la sua efficacia teorica/ potenziale (efficacy), misurata nella capacità di produrre anticorpi in condizioni controllate, sia per la sua efficacia pratica (effectiveness), misurata nella capacità di ridurre effettivamente l’influenza “sul campo”, tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati. L’efficacia pratica di regola è più bassa di quella teorica per varie ragioni: la prevalenza di patologie simil-influenzali nel corso della stagione influenzale, la corrispondenza del vaccino commercializzato (in base a previsioni) con i tipi vaccinali effettivamente circolanti nella successiva stagione influenzale, i cambiamenti antigenici che lo stesso sottotipo di virus può presentare nel corso dell’inverno (drift/deriva, mutazioni minori e shift/cambi antigenici, con mutazioni maggiori). C’è anche una teoria del “peccato originale” antigenico (Biswas et al. 2020), descritta per la prima volta proprio per il virus dell’influenza, che spiega la ridotta efficacia del vaccino in soggetti già immunizzati in precedenza, perché il sistema immunitario, benché sollecitato dal vaccino dell’anno in corso, nei già immunizzati si dirigerebbe anzitutto verso gli antigeni in comune con quelli di virus precedenti, perdendo quindi di specificità proprio verso il virus portatore delle mutazioni più recenti.

È stato documentato che l’efficacia della vaccinazione (EV) stagionale è maggiore tra le persone non vaccinate nei 5 anni precedenti. La EV contro il virus A H3N2 è risultata significativamente più alta nei soggetti non sottoposti a precedenti vaccinazioni (65%; intervallo di confidenza [IC] al 95%, 36%–80%) rispetto ai soggetti con anamnesi vaccinale positiva (24%; IC 95%, 3%-41%; P = 0,01). L’EV contro il virus B era rispettivamente del 75% (IC 95%, 50%-87%) e del 48% (IC 95%, 29%­62%) nei due distinti gruppi (McLean et al. 2014). Una ridotta risposta

14 Alberto Donzelli et Al.
anticorpale in soggetti =75 anni ripetutamente vaccinati è stata ancora
confermata in una recente pubblicazione (Ng et al. 2020) soprattutto tra anziani che avevano ricevuto negli anni precedenti una vaccinazione contro gli stessi ceppi.
La serie storica dell’effectiveness della vaccinazione antinfluenzale negli USA è presentata dai CDC ed è illustrata nella tabella 2.1 (CDC 2020).
Tabella 2.1. Stime di efficacia pratica del vaccino per le stagioni influenzali 2004-2019 secondo i CDC USA (modificata)

Stagione influenzale Autore Numero pazienti incluso nello studio‡ Efficacia pratica(%) 95% Intervallo di Confidenza
2004-05 Belongia 2009 762 10 -36, 40
2005-06 Belongia 2009 346 21 -52, 59
2006-07 Belongia 2009 871 52 22, 70
2007-08 Belongia 2011 1914 37 22, 49
2008-09 Non pubblicato 6713 41 30, 50
2009-10 Griffin 2011 6757 56 23, 75
2010-11 Treanor 2011 4757 60 53, 66
2011-12 Ohmit 2014 4771 47 36, 56
2012-13 McLean 2014 6452 49 43, 55
2013-14 Gaglani 2016 5999 52 44, 59
2014-15 Zimmerman 2016 9311 19 10, 27
2015-16 Jackson 2017 6879 48 41, 55
2016-17 Flannery 2018 7410 40 32, 46
2017-18 Rolfes 2019 8436 38 31, 43
2018-19 Flannery 2019 10.041 29 21, 35
2019-20 Dawood et al., 2020 4112* 45* 36, 53*

* Dati non definitivi (dal 23 ottobre 2019 al 25 gennaio 2020)
‡ Numero di pazienti utilizzati nel calcolo della efficacia vaccinale (EV).

L’ISS ha effettuato una valutazione sull’efficacia pratica/sul campo dei vaccini (EV) antinfluenzali nelle stagioni 2010-2011 e 2011-2012 attraverso uno studio di tipo caso-controllo disegnato ad hoc e un altro utilizzando il metodo dello screening. I risultati ottenuti con entrambi i tipi di studio hanno messo in evidenza che i vaccini antinfluenzali, per entrambe le stagioni, hanno conferito una protezione da moderata a bassa nei confronti dell’influenza confermata in laboratorio (EV aggiustata 32,5% nel 2010-2011 e 42% nel 2011-2012). La mancata corrispondenza tra i ceppi virali circolanti durante le stagioni in studio e quelli contenuti nei relativi vaccini non sembra sia stata un elemento sufficiente a spiegare la ridotta EV del vaccino trivalente. Le stime di EV sono coerenti con quelle degli studi condotti in anni precedenti, caratterizzati da una predominante circolazione del virus influenzale A/H3N2. In questi studi, l’efficacia del vaccino influenzale oscilla tra il 10% e il 68% a seconda del grado di corrispondenza antigenica con i ceppi circolanti. I risultati dello studio, la cui numerosità è modesta, potrebbero risentire di bias di selezione e di informazione, tuttavia sono in linea con i dati ottenuti a livello internazionale e hanno contribuito alla stima dell’EV del vaccino antinfluenzale a livello europeo, che, aggiustata per gli stessi fattori di rischio, utilizzati nello studio italiano, è risultata pari al 25% (IC 95% da – 6 a + 47) (Rizzo et al. 2016).
2.1. Quante persone devono ricevere un’iniezione di vaccino antinfluenzale per evitare una sindromeinfluenzale (che include anche, ma non solo, le influenze)?
Sulla base di tutti gli studi validi disponibili, le Revisioni sistematiche Cochrane hanno calcolato il numero di persone che è necessario vaccinare (NNV) per evitare 1 caso di influenza e 1 di ILI. Le ILI non sono clinicamente distinguibili dalle influenze, e includono sia le patologie provocate da virus influenzali A e B, sia infezioni da altri microrganismi che danno sintomi analoghi (per cui la vaccinazione antinfluenzale, che è specifica per le influenze, ha di norma un’efficacia minore nel ridurre il più vasto e meno specifico insieme delle ILI).
Per i bambini (2-16 anni, 41 studi su oltre 200.000 partecipanti, con vaccini inattivati) il NNV è 5 per l’influenza confermata in laboratorio, ma 12 per le ILI. L’efficacia nella fascia 6-35 mesi sembra significativamente minore (Jefferson et al. 2018). Per gli adulti (16-65 anni, 52 studi su oltre 80.000 partecipanti) il NNV si situa tra 29 e 71.
Per le gravide è 55 (Demicheli et al. 2018a).
Per gli anziani (>65 anni, 8 studi su oltre 5.000 partecipanti) il NNV è 30 per evitare un’influenza, 42 per evitare una ILI (che include l’influenza) (Demicheli et al. 2018b).
Come effetto pratico di una vaccinazione sembra più logico far riferimento alla riduzione attesa delle ILI, anziché a quella delle sole influenze, anche perché può accadere che le vere influenze si riducano, ma che l’insieme delle ILI non si riduca affatto (van Beek et a. 2017). In una parte dei casi ciò può accadere per il fenomeno dell’interferenza virale (v. punto 12.).

3 La vaccinazione antinfluenzale consente di distinguere una sindrome influenzale da una forma lieve o iniziale di COVID-19?
Favorire questa distinzione è uno dei motivi alla base di ordinanze regionali che stanno disponendo l’obbligo di vaccinazione antinfluenzale per anziani e sanitari (al momento Regioni Lazio, Puglia e Calabria) e il rafforzamento della raccomandazione vaccinale per altre fasce di popolazione. Ma l’argomento non sembra valido, per i motivi di seguito riportati.
Si ricorda anzitutto che la proposta di vaccinare tutti i bambini contro l’influenza fu già avanzata alla vigilia della stagione influenzale 2003­2004, sempre a causa delle somiglianze cliniche, negli stadi iniziali, tra influenza e SARS. Tale provvedimento non fu adottato sia per le differenze epidemiologiche tra le due patologie, sia perché le ILI, clinicamente indistinguibili, ma certo molto più frequenti sia dell’influenza che della SARS, avrebbero reso di fatto irrilevante il ruolo della vaccinazione antinfluenzale per una definizione della diagnosi differenziale. I dati in precedenza esposti e l’assenza di segnalazioni di criticità a carico del SSN per la mancata adozione di tale intervento hanno confermato la correttezza della decisione allora adottata.
Le differenze epidemiologiche tra influenza, sindromi influenzali e Covid-19 sono ancora più marcate: le prime colpiscono principalmente la popolazione pediatrica, con il 57,1% nella fascia 0-14 anni a fronte del 6,2% nella fascia sopra 65 anni (dati riferiti alla stagione 2018/2019). La Covid-19, al contrario, interessa maggiormente le fasce di età avanzata. I casi diagnosticati dai laboratori di riferimento regionali al 15 maggio 2020 riportano:

  • classe 50-59 anni 17,9% dei casi totali
  • classe 60-69 anni 13,5% ” “ “
  • classe 70-80anni 14,6% ” “ “
  • classe 80-89 anni 17,7% ” “ “
  • classe =90 anni 8,0% ” “ “,
  • con un dato complessivo delle età da 50 a >90 anni del 71,7%
  • rispetto alla classe di età 0-9 che ha registrato lo 0,8% dei casi
  • e alla classe 10-19 anni: 1,4% dei casi.

Nell’attuale pandemia, la percentuale dei deceduti è stata quasi lo 0% nelle età tra 0 e 29 anni, mentre il 95,3% dei deceduti si è concentrato nelle fasce di età da 60 a >90 anni (ISS 2020).
Dal punto di vista clinico, la COVID-19, come le malattie da altri coronavirus, si può manifestare con una sintomatologia sovrapponibile alla maggior parte delle sindromi influenzali. Le sindromi influenzali sono causate da un gran numero di agenti microbici oltre ai virus influenzali, e non è possibile distinguere l’agente eziologico in base al quadro clinico.
Si è visto al punto 1. che nelle stagioni influenzali dal 2013 al 2019 su 100 ILI circa il 30% sono da attribuire ai virus influenzali A e B (anzi, probabilmente meno, per i motivi prima illustrati). L’efficacia pratica media del vaccino antinfluenzale (EV) è meno del 50% (vedi tabella 2.1). Pertanto, su 100 soggetti che presentano una sindrome influenzale, circa 30 avrebbero una vera influenza. Di questi poco meno della metà, cioè 15, non si ammalerebbero di influenza se vaccinati, mentre gli altri 85 potrebbero ammalarsi anche a causa dei virus influenzali, nonostante siano stati vaccinati.

Si comprende dunque che la pregressa vaccinazione non aggiungerebbe nulla di sostanziale a una corretta diagnosi eziologica, che necessita inevitabilmente di effettuare comunque almeno un test rapido, come indicato nel punto 4. per identificare i virus influenzali, e – auspicabilmente con lo stesso tampone – un test RT-PCR per diagnosticare la presenza del SARS-CoV-2 (vedi capitolo successivo). La contemporanea circolazione dei virus influenzale e di SARS-Cov-2 nella prossima stagione influenzaleè una possibilità. È doveroso prevedere tutte le misure atte a garantire un’adeguata assistenza sanitaria alla popolazione, rafforzare le misure di igiene efficaci nel contenimento della diffusione degli agenti microbici e disporre di metodiche che consentano una pronta diagnosi causale.
Infine, anche considerazioni di sicurezza sconsigliano una vaccinazione antinfluenzale di massa, non solo per quanto sarà discusso ai punti 6.,
7. e 12., ma anche specifiche rispetto ai rapporti con il SARS-CoV-2. Infatti non si conosce né sul piano teorico, né su quello sperimentale ed epidemiologico l’effetto di questo vaccino (che comunque genera uno stimolo immunitario, anche aspecifico) somministrato a un paziente che sta incubando o svilupperà COVID-19. Si ricorda che casi gravi di COVID-19 sono caratterizzati da una sindrome iperinfiammatoria (ARDS, CID, tempesta citochinica); non si può pertanto escludere che potrebbe produrre un peggioramento nel decorso della COVID-19. Questo dubbio, sollevato a torto o a ragione da molti (si veda l’associazione riscontrata in Spagna, punto 12.) e sottoposto anche all’ISS con uno specifico quesito ­dovrebbe trovare risposta in un accurato studio delle cartelle dei casi di morte o COVID-19 grave, ma nel frattempo sarebbe un azzardo ignorare questa possibilità.

4 Esistono mezzi diagnostici che consentono di distinguere rapidamente una sindrome influenzale da una forma lieve o iniziale di COVID-19?

Esistono da tempo precise metodiche “RT-PCR” dette “multiplex” (Templeton et al. 2004, Mahony 2008), che consentono con un solo
tampone orofaringeo o nasale di effettuare la diagnosi molecolare di molti diversi tipi di virus respiratori. Sono test maneggevoli, che in
pochi minuti possono fornire un’indicazione diagnostica da confermare, almeno a campione, con test dotati di maggiore sensibilità e specificità.

È auspicabile il potenziamento delle strumentazioni e metodologie diagnostiche di laboratorio, tra cui sarebbe molto importante disporre
di test RT-PCR per effettuare in modo simultaneo la ricerca dei virus influenzali e SARS-CoV-2 nei tamponi. Oltretutto, non è infrequente una co-infezione tra SARS-CoV-2 e altri patogeni respiratori (Kim et al. 2020).

Introducendo tali metodiche nel sistema diagnostico già collaudato per l’epidemia da SARS-CoV-2 si potranno discriminare in modo rapido
ed efficace i casi in cui sussistano dubbi diagnostici. Tale approccio è molto più razionale e preciso rispetto al tentare diagnosi “per esclusione”, considerando se un soggetto sia vaccinato o meno per una delle tante possibili ipotesi diagnostiche.

4.1. Quale potrebbe essere il razionale per introdurrevaccinazioni su larga scala, dunque non mirate asottogruppi a rischio davvero elevato?
Nell’introduzione di una vaccinazione su larga scala, il razionale della decisione in sanità pubblica dovrebbe rispondere ai criteri discussi al
successivo punto 10., cui si rimanda per la loro valenza generale.

5 Quali sono le ricerche/studi di maggior validità, che consentono di stabilire con maggior certezza
l’efficacia e gli effetti sanitari nettidi un intervento sanitario?
Gli studi possono essere osservazionali o sperimentali.
Negli studi osservazionali i ricercatori “osservano, registrano”, ma non hanno il controllo dell’ambiente di ricerca e delle diverse variabili in gioco. Quando anche confrontano nel tempo ciò che accade in un gruppo che riceve ad es. una medicina o una vaccinazione, rispetto a un gruppo di controllo che non la riceve, non possono esser certi che le differenze rilevate siano dovute a quell’intervento e non invece ad altre caratteristiche che distinguono i due gruppi. Per quanto introducano aggiustamenti, anche sofisticati, riescono di norma ad applicarli solo a variabili di cui è loro noto un effetto sul risultato di interesse, ma non riescono ad aggiustare per variabili ignote, o i cui effetti non siano da loro già conosciuti.

5.1. Studi osservazionali e “bias (distorsione)del vaccinato sano”. Studi sperimentali
Gli studi osservazionali sono soggetti, tra gli altri, al cosiddetto “bias dell’aderente sano”: gli individui che aderiscono a terapie preventive hanno, al tempo stesso, più probabilità di seguire stili di vita più salutari rispetto a chi non aderisce a tali strategie preventive (oltre a credere di più nell’efficacia di quella terapia). Uno stile di vita salutare include dieta, esercizio fisico, minor consumo di alcol, meno comportamenti rischiosi, la ricerca di una miglior assistenza sanitaria. Queste, e altre, caratteristiche chiamate in gergo epidemiologico “fattori di confondimento” e difficili da recuperare in banche-dati di tipo amministrativo, si associano negli studi osservazionali sia all’esposizione all’intervento preventivo, sia agli esiti di morbosità e mortalità, e possono anche essere loro fattori causali.
Allo stesso modo, in campo vaccinale, c’è il “bias del vaccinato sano”, che porta a sovrastimare l’efficacia e la sicurezza del vaccino. La vaccinazione antinfluenzale negli anziani ha già fornito un chiaro esempio di questo tipo di bias (Jackson et al. 2006 – figura 5.1).

Varie analisi di studi di coorte su esiti clinici importanti hanno mostrato che il gruppo dei non vaccinati aveva maggiori probabilità di morire rispetto al gruppo dei vaccinati per ragioni non legate all’influenza, non solo durante la stagione influenzale, ma anche prima e dopo di essa (infatti, nel gruppo che non si vaccina è probabile che sia maggiore la proporzione di soggetti più vicini alla morte, benché ciò possa ad alcuni sembrare controintuitivo).

Studi sistematici di questo bias e del suo opposto, il “bias di confondimento da indicazione” (cioè che tenda a vaccinarsi di più chi è più malato) hanno mostrato che aggiustamenti statistici possono correggere abbastanza bene il bias di confondimento da indicazione, mentre non riescono a compensare in modo adeguato il bias da vaccinato sano (Remschmidt et al. 2015).
Pertanto sarebbe necessario fare anzitutto affidamento su studi di disegno più valido.
Nelle studi sperimentali o di intervento, invece, l’assegnazione preventiva in base alle leggi del caso (randomizzata) di un numero elevato di partecipanti a un gruppo sperimentale che riceverà l’intervento (nel ns caso il vaccino), o a un gruppo di controllo, consente di distribuire in maniera di norma ben bilanciata tra i due gruppi sia i fattori di confondimento noti sia quelli ignoti che possono influenzare il risultato, dunque le differenze rilevate alla fine saranno ascrivibili all’unica variabile che distingue i due gruppi: l’intervento (nel caso considerato la vaccinazione).

Dunque i “gold standard” di ricerche per valutare gli effetti netti di un intervento sono gli studi (prove/trial) controllati randomizzati, che d’ora in avanti indicheremo con la sigla RCT (dalle iniziali dei termini inglesi Randomized Controlled Trial).
Questi a loro volta si distinguono in RCT esplicativi, che esplorano l’efficacia di interventi in ambienti ideali, su partecipanti selezionati e strettamente monitorati; e RCT pragmatici, che esplorano l’efficacia di interventi in partecipanti e contesti della vita reale. La lingua inglese ha due termini differenti per indicare la diversa “efficacia” dimostrata: quella dei trial esplicativi è chiamata efficacy, quella dei trial pragmatici effectiveness.
I trial esplicativi servono soprattutto a testare l’ipotesi che la risposta osservata sia spiegata dal fatto di ricevere un particolare intervento; quelli pragmatici sarebbero invece utili per orientare le decisioni cliniche
o di salute pubblica reali tra diversi interventi disponibili. I primi hanno quindi una maggiore validità cosiddetta “interna”, i secondi una maggior validità “esterna” o generalizzabilità.

La rivista Lancet ha da poco riportato un interessante dibattito sul perché ricerche osservazionali, relative al “mondo reale” non possono sostituirsi agli RCT per stabilire gli effetti di un intervento.

L’RCT può non essere necessario per accertare la causalità nelle rare situazioni in cui “è improbabile che un fattore confondente possa spiegare associazioni con rischi relativi estremi, come quelli di meno di 0,25 o più di 4” (Gerstein et al. 2019). Invece, “le associazioni con rischi relativi che variano da 0,5 a 2 sono quelle più comunemente riportate nelle analisi di dati reali, e quelle più suscettibili a fattori confondenti non riconosciuti” (Gerstein et al. 2019). In queste situazioni gli RCT sono “insostituibili”.
La conclusione è che “In assenza di randomizzazione, le analisi della maggior parte dei dati osservazionali tratti dal “mondo reale”, indipendentemente da quanto siano sofisticate, possono solo generare ipotesi” (Gerstein et al. 2019).

Una lettera di tre revisori Cochrane ha riportato criteri anche più stringenti: “Altri studi hanno suggerito soglie differenti, con RR di 10
o superiori, o di 5 o superiori (o RR inferiori a 0,2) per poter evitare un RCT” (Djulbegovic et al. 2019). Ciascuna di queste soglie di certo avrebbe fatto richiedere altri RCT di fronte ai risultati delle ultime revisioni sistematiche di studi osservazionali, che danno effetti lontanissimi (molto più contenuti!) rispetto a queste soglie, anche quando siano dichiarati “statisticamente significativi”.
5.2. Ci sono altre condizioni associate in modo sistematico a un’esagerazione dei benefici e della sicurezza di un intervento?

Sì, ne ricordiamo tre. Le prime due sono presenti piuttosto spesso negli studi su benefici e sicurezza di vaccinazioni.
A. Studi con Sponsor commerciali/industriali. Una revisione sistematica Cochrane (Lundh et al. 2017) ha incluso studi empirici che hanno messo a confronto in modo quantitativo studi primari su farmaci o dispositivi medici con Sponsor commerciale rispetto a studi con altre fonti di finanziamento. I risultati d’efficacia hanno favorito in modo significativo i prodotti di Sponsor commerciali rispetto a studi senza sponsor commerciale (RR 1,27; IC 1,17-1,37); e ancor più nelle conclusioni (RR 1,34; IC 1,19-1,51). Inoltre, gli studi con Sponsor commerciale hanno mostrato meno coerenza tra i risultati riportati e le conclusioni espresse. Infine hanno mostrato una tendenza (RR 1,37; IC 0,62­2,93) a mostrare maggior sicurezza dei prodotti studiati. Tutto ciò ha fatto coniare il termine sponsorship-bias, cioè “distorsione dovuta alla natura dello sponsor”.

B. se gli Autori principali, cioè il primo e l’ultimo indicati in ogni pubblicazione, avevano relazioni finanziarie con lo Sponsor, i loro studi si associavano con risultati positivi per i prodotti dello Sponsor, con un OR 3,37 (circa tre volte di più), rispetto a studi con Autori principali che non dichiaravano relazioni finanziarie con lo Sponsor. Ciò inoltre avveniva in modo indipendente dallo sponsorship bias (Ahn et al. 2017).
C. RCT troncati precocemente rispetto al protocollo originario “per benefici” si associano in modo sistematico con benefici rilevati maggiori rispetto ad analoghi studi che non siano stati troncati, e ciò in modo indipendente dalla qualità metodologica dei RCT stessi. La sovrastima dei benefici è molto grande nei RCT con meno di 200 eventi, grande nei RCT che registrano da 200 a 500 eventi, moderata e ancora significativa anche in quelli con più di 500 eventi (Bassler et al. 2010).
La presenza di una o più di queste condizioni riduce la fiducia nei risultati e nelle conclusioni riportate.

 

6 Gli RCT (studi randomizzati controllati) hanno dimostrato beneficidella vaccinazione antinfluenzale per anziani con cardiopatia attiva. Ci sono prove da RCTche dia più benefici che dannianche ad anziani non cardiopatici?
I RCT relativi agli effetti sulla salute cardiovascolare e sulla mortalità della vaccinazione antinfluenzale negli anziani sono sorprendentemente pochi. La prima metanalisi di RCT in pazienti “ad alto rischio di malattie cardiovascolari (CV)” ne ha rintracciati 6 (di cui 1 non pubblicato) che hanno riportato esiti di efficacia e sicurezza (Udell et al. 2013a, Udell et al. Suppl. online 2013b). Gli autori della metanalisi hanno affermato che il vaccino antinfluenzale si associava a una riduzione degli eventi CV maggiori, particolarmente forte in pazienti con cardiopatia coronarica più attiva.
In realtà, nei soggetti non cardiopatici queste prove mancano. Al contrario, una revisione critica (Donzelli e Battaggia 2014) della suddetta
metanalisi ha rilevato che, in base ai dati riportati, il vaccino si associava a un rischio CV inferiore solo in pazienti con cardiopatia coronarica attiva.

I pazienti con cardiopatia coronarica stabile non mostravano riduzioni significative di rischio né di mortalità cardiovascolare (RR 0,90; 0,31­
2,59), e nei pazienti >60 anni senza cardiopatia coronarica* la vaccinazione si associava a coerente tendenza all’aumento di rischio di eventi cardiova­scolari, di mortalità cardiovascolare, e di mortalità da tutte le cause (si riporta qui per brevità solo il dato di quest’ultima: RR 1,55; 0,96-2,51), rimandando all’articolo (Donzelli e Battaggia 2014) permaggiori dettagli.
* (presenti nella metanalisi in soli due RCT (Govaert et al. 1994, De Villiers et al. 2009), di buona qualità, uno con sponsor commerciale (De Villiers et al. 2009), su pazienti con varie condizioni croniche stabili)

Una successiva revisione Cochrane (Clar et al. 2015), con ricerca sistematica della letteratura scientifica, non ha aggiunto RCT simili ai due suddetti, che i revisori hanno classificato come svolti su “partecipanti” di età =60 anni “con condizioni cliniche sotto controllo” (cioè stabili).
Sono stati però pubblicati altri due RCT su anziani sani. Uno (Allsup et al. 2004) finanziato dal Centro Nazionale HTA (Health Technology Assessment) del Regno Unito, che ha registrato la stessa mortalità nel gruppo dei vaccinati e in quello dei non vaccinati, ha concluso che la vaccinazione antinfluenzale non dà benefici e non riduce i costi del Servizio Sanitario Nazionale in soggetti 65-74enni sani. L’altro, finanziato e seguito da Glaxo Smith Kline con autori in relazioni finanziarie o suoi dipendenti (Langley et al. 2011), conferma che il vaccino è immunogeno (anche negli anziani), pur con più reazioni avverse locali e sistemiche, ma trova che si associa a meno morti rispetto al placebo.

Somma dei morti totali nei quattro RCT su anziani:
vaccinati 1,11% (47 morti/4.217 partecipanti);
placebo 1,07% (33 morti/3081 partecipanti)

7 Ci sono prove basate sui migliori studi osservazionali che la vaccinazione antinfluenzale in un insieme di anziani dia più benefici che danni?
Studi osservazionali tradizionali suggeriscono che la vaccinazione di soggetti anziani riduca il rischio di ricoveri e di morte del 25% e più. Tali studi sono però soggetti a confondimento dovuto alla tendenza dei soggetti “più sani” e più attenti alla loro condizione di benessere a sottoporsi a vaccinazione, come dimostrato in diverse situazioni. Un disegno che ovvia, almeno in parte, a tale distorsione è lo studio osservazionale con “regression discontinuity design”. Questo è il disegno quasi-sperimentale applicato sempre più frequentemente in situazioni in cui un esito sia associato a una variabile continua (nel nostro caso l’età) per la quale si stabilisca un criterio soglia al quale proporre un particolare intervento sanitario.

Il recente studio con tale disegno qui riportato (Anderson et al. 2020) fa riferimento alla raccomandazione introdotta nel Regno Unito di proporre la vaccinazione antinfluenzale alle persone con più di 65 anni, a partire dalla stagione influenzale 2000-2001. Questo provvedimento ha reso possibile applicare il disegno di studio sopra indicato, con reclutamento di soggetti di età intorno ai 65 anni, consentendo un confronto fra gli ultra 65enni e i soggetti più giovani (tutti i reclutati avevano una età compresa fra 55 e 75 anni nel periodo di studio).

Si è scelto questo intervallo di età per disporre di un numero di osservazioni sufficienti ad avere una potenza (cioè la capacità di identificare differenze quando queste esistono) dell’80% nel caso in cui risultasse vera l’ipotesi di una riduzione =25% di ricoveri e mortalità fra i vaccinati, come segnalato negli studi tradizionali.
Si sono considerati i ricoveri ospedalieri da Aprile 2000 a Marzo 2011 (170 milioni) e i decessi fra il Gennaio 2000 e il Dicembre 2014 (7,6 milioni). Si sono calcolati i tassi, aggiustati per età, per ogni 10.000 persone, usando l’età approssimata al mese di nascita e, per l’esito, il mese di ricovero o decesso, contando gli eventi verificatisi nel periodo influenzale di ogni anno considerato: fra Ottobre e Marzo.
Con un modello di regressione fuzzy (che ammette che intorno ai 65 anni non si abbia un passaggio brusco da 0 a 1 della variabile che identifica l’avvenuta vaccinazione) si è evidenziato a 65 anni un brusco incremento dei soggetti vaccinati, come ci si aspettava. All’analisi dei dati di ricovero e di decesso non si è rilevato un analogo cambiamento, che avrebbe sostenuto l’ipotesi di efficacia pratica dell’intervento di vaccinazione.

Di fatto, confrontando i tassi di ricovero e di mortalità di 55–65enni e 65–75enni tenendo conto del trend attribuibile all’età, non si è osservata alcuna significatività statistica, come riportato nella foto della tabella. Addirittura la tendenza (che non raggiunge la significatività statistica) è sfavorevole nell’insieme della popolazione in esame sia per ricoveri che per mortalità per ciascuno degli esiti considerati1:

  • polmonite e influenza,
  • cause respiratorie,
  • cause circolatorie,
  • tutte le cause insieme.

Dunque questo enorme studio osservazionale sull’antinfluenzale nei 55-75enni di Inghilterra e Galles dal 2000 al 2014 (che nel periodo considerato hanno avuto un aumento di 20 punti % nella copertura con vaccinazione antinfluenzale), grazie a un regression discontinuity design (Anderson et al. 2020) riduce il bias di precedenti studi osservazionali e mostra nei vaccinati una costante tendenza al danno, benché non statisticamente significativa. La dimensione dello studio infatti era stata decisa solo per fornire la potenza voluta (80%) per il test sull’esito principale, cioè se esistesse un’efficacia della politica vaccinale negli ultrasessantacinquenni almeno pari a quella trovata negli studi tradizionali precedenti.

Le stime puntuali migliori degli effetti netti considerati (Anderson et al. 2020 – table 1 e 2) mostrano nei vaccinati:
+0,6 casi di polmonite e influenza ogni 10.000 anziani,
+2,3 ricoveri per malattie respiratorie “ “ “
+5,1 ricoveri per malattie circolatorie “ “ “
+1,1 morti totali “ “ “.

Se tali stime puntuali formulate per Inghilterra e Galles nei vaccinati
Per approfondimento sul metodo, oltre che all’articolo originale, si riman­da a: J Bor, E Moscoe, P Mutevedzi, ML Newell, T Bärnighausen (2014): Regression Di­scontinuity Designs in Epidemiology Causal Inference Without Randomized Trials Epidemiol; 25: 729 – 37 mentre per una presentazione più ampia di applicazioni si rinvia a: AS Venkataramani, J Bor, AB Jena (2016): Regression discontinuity designs in healthcare research BMJ. 2016; 352: i1216.

Per ricoveri (+9,1 ogni 10.000) e per mortalità totale (+1,1 ogni 10.000) (Anderson et al. 2020, Donzelli 2020) fossero proiettate su una popolazione di ~13,8 milioni di anziani, tale popolazione registrerebbe ogni anno ~12.500 ricoveri in più e ~1.500 morti in più rispetto alla strategia di non vaccinare.
Ciò supera anche l’argomento, spesso invocato a favore della vaccinazione, che “alleggerirebbe il carico assistenziale”. In realtà le migliori prove ad oggi disponibili mostrano che il carico assistenziale nei confronti degli anziani non ne sarebbe affatto ridotto.
Continuare a rilanciare campagne di vaccinazione antinfluenzale indiscriminata (anziché mirata ai cardiopatici per cui ci sono prove di beneficio), o, peggio, obbligatoria, non ha ad oggi un valido supporto scientifico, e potrebbe nell’insieme fare più danni che benefici.

7.1. Che cosa potrebbe spiegare possibilieffetti sfavorevoli non banali?
Alcuni autori hanno trovato un aumento significativo di ricoveri per infarto cardiaco acuto (altri anche per ictus) entro la settimana successiva a una malattia infettiva (l’aumento di rischio non persisteva oltre 7 giorni) (Kwong et al. 2018): dopo influenza B (aumento d’incidenza di infarto di ~10 volte), influenza A (aumento di ~5 volte), virus respiratorio sinciziale (aumento di 3,5 volte), altri virus (aumento di ~2,8 volte), e hanno ragionevolmente ipotizzato che infiammazioni acute potrebbero facilitare un infarto in individui predisposti, nei giorni successivi. Tuttavia anche l’inoculazione del vaccino antinfluenzale causa una reazione infiammatoria misurabile nella settimana successiva (Christian et al. 2011, 2013 e 2015) L’infiammazione che segue a una vaccinazione è certo meno importante di quella associata a un’influenza, ma, come spiegato al punto 2.1., per evitare una influenza in una popolazione bisogna somministrare decine di dosi di vaccino, e solo appropriati RCT possono stabilire quale delle due alternative abbia un effetto netto complessivo minore a livello di popolazione (Donzelli 2018a).

7.2. Quali effetti avversi sono riconosciuti?
Nel decidere provvedimenti di sanità pubblica generali, ancor più se vincolanti, la questione della sicurezza è cruciale. Una revisione sistematica Cochrane (Demicheli et al. 2018) afferma che le prove disponibili relative alle complicanze sono di scarsa qualità, insufficienti
o vecchie e non forniscono indicazioni chiare per la salute pubblica su sicurezza o efficacia dei vaccini antinfluenzali per gli anziani. I sistemi di farmacovigilanza anche in questo settore sono lasciati soprattutto alle segnalazioni “spontanee”, che sono del tutto insufficienti per evidenziare l’entità del fenomeno, come documentano i rapporti AIFA degli ultimi anni e i confronti con una sorveglianza attiva (Stefanizzi et al. 2019, Bellavite 2020).

Molto raramente, la vaccinazione antinfluenzale può provocare polmonite interstiziale (Watanabe et al. 2013, Bhurayanontachai 2010, Hibino e Kondo 2017) e vasculite (Watanabe 2017), che potrebbero sovrapporsi ai danni da Covid-19; la durata media dell’intervallo tra vaccinazione e diagnosi di polmonite interstiziale è stata di 10 giorni (da 2 a 41).
La vaccinazione non limita i suoi effetti, sia positivi che indesiderati, all’individuo che la riceve, ma sembra in grado di interferire con un più ampio ecosistema microbico: ad es. studi su bambini e adulti mostrano che la vaccinazione antinfluenzale può aumentare infezioni respiratorie da altri virus (v. punto 12. sull’interferenza virale). Si veda anche quanto riporta in proposito il capitolo dedicato all’influenza di un recente volume sulle vaccinazioni (Gøtzsche 2020).
Quanto agli effetti avversi locali o sistemici a breve termine, generalmente considerati banali, si veda anche al punto che segue.

7.3. Un “nuovo vaccino” antinfluenzale?
I vaccini antinfluenzali erano in genere trivalenti, costituiti da due ceppi di influenza A circolanti (uno di H1N1 e uno di H3N2) e un ceppo di influenza B del linaggio Victoria o Yamagata. Essendo stato dimostrato che entrambi i ceppi B sono in co-circolazione, i vaccini tetravalenti sono diventati sempre più disponibili negli ultimi anni per aumentare la copertura. Per aumentare l‘efficacia, sono stati sviluppati e sono in uso clinico vaccini ad alto dosaggio, adiuvati e somministrati per via intradermica.
È stata appena autorizzata l’immissione in commercio di un nuovo vaccino antinfluenzale “ad alto dosaggio”, Efluelda, prodotto dalla ditta Sanofi (ANSA 2020), con notifica pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 16 maggio 2020 (AIFA 2020a). Contiene una quantità di antigene quattro volte maggiore rispetto al vaccino quadrivalente a dosaggio standard. Sarà disponibile in Italia già dalla prossima stagione influenzale, e il produttore informa che permetterà una maggior protezione in soggetti ultra 65enni che, per il fisiologico fenomeno di immunosenescenza, hanno bisogno di vaccini specifici.

Tuttavia, lascia perplessi la promessa di un’efficacia “futura” per un vaccino antinfluenzale testato solo per la stagione in cui è stato usato.
Inoltre, è noto che, in base ai ceppi virali circolanti e all’andamento delle ILI nel mondo, il Global Influenza Surveillance Network dell’OMS, in collaborazione con i National Influenza Centres (NIC), aggiorna ogni anno la composizione del vaccino antinfluenzale. Sorprende dunque l’autorizzazione di un vaccino che, su 4 ceppi, contiene 3 ceppi diversi da quelli raccomandati dall’OMS per la stagione 2020-21 (tabella 7.1).

La tabella seguente confronta le due composizioni:
Tabella 7.1. Raccomandazioni OMS per il vaccino antinfluenzale per la stagione 2020-21 e composizione di Efluelda
Virus Raccomandazioni Efluelda (AIFA 2020b) influenzale OMS 2020-21 (WHO 2020)
A (H1N1) A/Guangdong-Maonan/SWL1536/2019 A/Michigan/45/2015
A (H3N2) A/Hong Kong/2671/2019 A/Singapore/INFIMH
16 0019/2016
B B/Washington/02/2019 B/Colorado/6/2017
B B/Phuket/3073/2013 B/Phuket/3073/2013

La sollecita autorizzazione italiana potrebbe fornire sostegno a una campagna di vaccinazioni antinfluenzali (forse basata sulla “teoria” del contrasto alla Covid-19), tanto “precoci” da non consentire il tempo per allestire i vaccini secondo le indicazioni OMS.
Se così fosse, l’operazione avrebbe un razionale discutibile (v. anche quanto discusso nell’introduzione al punto 2.), ma non sembra neppure priva di rischi aggiuntivi, dati gli alti dosaggi proposti proprio per le persone più anziane e fragili.
A questo proposito, nelle comunicazioni finora veicolate manca un’informativa sulla sicurezza, benché vaccini ad alto dosaggio abbiano dato più effetti avversi di quelli a dosaggio normale.

Ad es. in un’ampia coorte australiana il confronto di sicurezza tra il precedente vaccino inattivato ad alta dose trivalente Fluzone (alta dose, Sanofi-Aventis) rispetto a quello adiuvato a dose normale Fluad (dose standard, Sequirus – Pillsbury et al. 2020) ha mostrato una media del 7,4% di effetti avversi (lo 0,3% ha richiesto assistenza medica, considerata proxy di evento avverso grave), così ripartiti: 8,9% con l’alta dose, 6,4% con la dose standard. La differenza si è confermata significativa per tutti gli eventi avversi tipici: dolore nel punto di iniezione, gonfiore, stanchezza, mal di testa, mentre le richieste di intervento medico sono state simili in generale. Gli eventi avversi sono risultati doppi in chi ha ricevuto un altro vaccino concomitante, soprattutto se si trattava dell’antipneumococco 23valente (18% di eventi avversi, 1% di richieste di assistenza medica). Ciò significa che se ad es. 3 milioni di anziani aderissero non solo a un possibile obbligo di vaccinazione antinfluenzale, ma anche alla forte raccomandazione di abbinare la suddetta vaccinazione antipneumococcica, 30.000 di loro dovrebbero ricorrere ad assistenza medica per gli effetti avversi sperimentati. Quando i dati sono stati corretti con analisi multivariata, l’abbinamento di antinfluenzale ad alta dose con antipneumococcica 23valente ha dato luogo a una richiesta assai maggiore di assistenza medica: 4,1% dei casi (Pillsbury et al. 2020).

L’attuale vaccino antinfluenzale quadrivalente Efluelda è stato testato in un RCT su 2.670 anziani (Chang et al. 2019) (sponsor Sanofi Pasteur, dei 5 autori 4 sono dipendenti dallo sponsor, l’universitario è in relazioni finanziarie con lo sponsor; v. punto per le implicazioni 5.2.). La conclusione degli autori è che il vaccino quadrivalente ad alta dose non ha peggiorato la tollerabilità rispetto al gruppo di controllo attivo. Va tuttavia segnalato che il controllo non era costituito da un placebo, e neppure da un vaccino a dose standard, ma dal precedente trivalente ad alta dose, che aveva già dimostrato più eventi avversi in ogni esito considerato rispetto a un vaccino a dose standard. Nel caso di questo RCT (Chang et al. 2019), gli eventi avversi raccolti con sorveglianza attiva sono di più; ad es. nel quadrivalente ad alta dose:

  • dolore in sede di iniezione nel 41,3% dei vaccinati; nel 3,6% è dura­to da 4 a 7 giorni,* nello 0,5% >7 giorni**
  • dolori muscolari nel 22,7%; nel 2,8% è durato 4 a 7 giorni, nello 0,5% >7 giorni
  • mal di testa nel 14,4% dei casi; nel 1,8% è durato 4 a 7 giorni,* nello 0,3% >7 giorni**
  • malessere nel 13,2% dei casi; nel 1,6% è durato 4 a 7 giorni,* nello 0,4% >7 giorni**
  • brividi nel 5,4% dei casi; nello 0,2% sono durati 4 a 7 giorni,* nello 0,2% >7 giorni**
  • arrossamento in sede di iniezione: nel 3% circa dei casi è stato di grado 2 (diametro da >5 a 10 cm) o 3 (diametro >10 cm), e il gon­fiore di pari dimetro si è presentato quasi nelle stesse percentuali di casi.

* riportati anche come “grado 2 – richiedenti interventi terapeutici addizionali, interferenti con le normali attività ma che non hanno comportato rischi permanenti”
** riportati anche come “grado 3 – hanno interrotto le attività quotidiane, interessato lo stato clinico in modo significativo, o richiesto un intervento terapeutico intensivo”
Tutti questi eventi sono in genere classificati come “banali”, ma se proiettati sui quasi 14 milioni di anziani italiani comporterebbero problemi di grado 2 o 3, come sopra definiti, per varie centinaia di migliaia di anziani.
Quanto a eventi non “banali”, una precedente esperienza italiana con vaccino quadrivalente a dose standard (Valent e Gallo 2018) non è stata incoraggiante, come mostrano i dati su ricoveri e mortalità nella tabella
7.2. qui riprodotta:
Tabella 7.2. Associazione tra vaccinazione antinfluenzale e visite in Dipartimento di Emergenza, ricoveri e morte per influenza o polmonite (ICD-9 480-488) nella stagione influenzale 2016-17 nell’area di Udine, Italia (Hazard Ratio e Intervalli di Confidenza al 95%)
visite Dipart.

Ricoveri Morti

Emergenza
HR (IC 95%) HR (IC 95%) HR (IC 95%)

Vaccinaz. Influenzale 1,13 (0,91-1,40) 1,11 (0,93-1,33) 1,05 (0,70-1,58) (vs non vaccinazione)
Vaccinaz. Influenzale 1,11 (0,95-1,48) 1,11 (0,92-1,34) 1,02 (0,67-1,54)
(intradermica, dose
standard)

Vaccinaz. tetravalente 0,81 (0,46-1,41) 1,47 (1,00-2,15) 1,12 (1,03-1,54)
(racco-mand. x sanitari e
alto rischio)*

* le autrici segnalano che le correzioni attuate nell’analisi multivariata per sesso, età e punteggio di comorbosità potrebbero non essere state sufficienti a eliminare residui fattori di confondimento (associati con i peggiori risultati della vaccinazione tetravalente).

8In base a quanto illustrato,la vaccinazione antinfluenzale obbligatoria degli anzianisarebbe costituzionale?
La sentenza n. 258/94 (Corte Costituzionale 1994) della Corte Costituzionale spiega che le leggi che prevedono l’obbligatorietà delle vaccinazioni sono compatibili con l’art. 32 della Costituzione alle tre condizioni indicate:
a) “se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri
b) se vi sia “la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili” (ivi);
c) se nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica – sia prevista comunque la corresponsione di una “equa indennità” in favore del danneggiato (cfr. sentenza 307 cit. e v. legge n. 210/1992).
Alla luce di una valutazione dei dati prima esposti riesce difficile parlare di legittimità costituzionale, dato che già al punto a) la condizione non è dimostrata, se ci si riferisce a esiti di salute importanti: polmoniti, ricoveri per malattie respiratorie o circolatorie o ricoveri totali, mortalità.

9 Ci sono prove da RCT che la vaccinazione antinfluenzale degli adulti sani comporti vantaggi netti e che quella delle gravide sia benefica per la prole?
Una revisione sistematica Cochrane condotta su studi sulla vaccinazione antinfluenzale in adulti sani (Demicheli et al. 2018), dai 16 ai 65 anni, ne ha ridimensionato l’efficacia, evidenziando che “il NNV (numero di adulti sani che bisogna vaccinare per evitare 1 influenza e 1 sindrome influenzale/influenza-like illness/ILI) è compreso tra 71 e 29 vaccinazioni. Cioè, per evitare 1 caso di influenza o 1 di ILI in una popolazione bisogna effettuare rispettivamente 71 e 29 iniezioni di vaccino (Demicheli et al. 2018).
Dunque la comunicazione che “consiglia l’iniezione di vaccino a chi desidera evitare un’influenza” non dà affatto un’informazione chiara. Infatti, a differenza di quanto comunemente inteso, non si tratta di scegliere tra 1 vaccinazione o 1 influenza (che ha di certo conseguenze più serie rispetto a una vaccinazione antinfluenzale), ma lo scambio medio è tra varie decine di iniezioni di vaccino e 1 influenza. Tuttavia è improbabile che molti adulti sani ne siano consapevoli e che facciano dunque una scelta informata.

9.1. Vaccinazione antinfluenzale nelle gravide
Nella comunicazione pubblica rivolta al personale sanitario e alla popolazione si sottolinea che le donne gravide sono considerate “gruppo prioritario per la vaccinazione antinfluenzale” per una “maggiore suscettibilità a forme severe di influenza”, benché nel decennio 2005/06
– 2014/15 (dati ISTAT) i decessi tra le donne incinte italiane siano stati 9, circa 1 all’anno su coorti annue di ~500.000 gravide, cioè lo 0,2% del numero totale dei decessi per influenza nella popolazione confermati con test di laboratorio.
Il numero di vaccinazioni da effettuare (NNV) per evitare 1 influenza è elevato: nella revisione sopra citata (Demicheli et al. 2018) è risultato di 55 per le madri e di 56 per i neonati. La revisione (Demicheli et al. 2018) afferma: “l’effetto protettivo della vaccinazione per le madri e i nuovi nati è stato molto modesto… più modesto di quello osservato in altre popolazioni considerate in questa revisione… non siamo certi della protezione offerta alle gravide contro l’ILI e contro l’influenza da parte del vaccino antinfluenzale inattivato, o quanto meno tale protezione è risultata molto limitata”.
A fronte di tale modesta efficacia sulle gravide, nei quattro RCT controllati con placebo in cui si sono studiati gli effetti di questa vaccinazione la mortalità nella prole delle gravide vaccinate con antinfluenzale ha teso a essere più alta rispetto ai gruppi di controllo (in 3 su 4 RCT: Zaman et al. 2008, Tapia et al. 2016, Steinhoff et al. 2017) e anche il 4° ha comunque avuto una tendenza alla maggior mortalità fetale: Madhi et al. 2014, Simões et al. 2019). Gli eventi avversi gravi (SAE o Serious Adverse Events) complessivi hanno teso a essere più numerosi, e nel RCT di maggiori dimensioni gli eccessi di presunte/infezioni neonatali gravi e anche l’eccesso di SAE totali tra i nuovi nati sono risultati statisticamente significativi (Tapia et al. 2016, Donzelli 2019).
Il meccanismo di questi ipotetici danni non è chiaro, ma è documentato che questa vaccinazione provoca uno stress infiammatorio (Christian et al. 2011, 2013, 2015), che potrebbe comportare rischi per alcuni soggetti. Lo stress infiammatorio di un’influenza è di certo maggiore di quello di una vaccinazione antinfluenzale, ma il rapporto da considerare è tra 1 influenza e 55 vaccinazioni (Demicheli et al. 2018).
Si dirà che gli studi osservazionali danno risultati diversi. Non è così vero, se si considera una revisione sistematica molto recente degli stessi, che ha adottato maggiori controlli per fattori di confondimento e una metanalisi Bayesiana, senza più trovare benefici significativi (Jeong et al. 2019).

In ogni caso, si dovrebbe ricordare la lezione di molti risultati osservazionali ampiamente pubblicizzati perché in apparenza favorevoli (riguardanti terapia ormonale sostitutiva in menopausa, supplementazioni con vitamina D, con acidi grassi omega-3, ecc.) che sono stati poi smentiti dai corrispondenti RCT.
Pertanto, allo stato delle conoscenze, non risulta giustificata la pressione internazionale a considerare la vaccinazione antinfluenzale delle gravide come uno “standard di cura” in base a studi osservazionali e ignorando i segnali di sicurezza che sono emersi negli RCT. Anzi, questa forzatura rischia di precludere l’effettuazione di successivi fondamentali RCT indipendenti per “motivi etici”, “per non privare le donne incinte del gruppo di controllo dei benefici della vaccinazione antinfluenzale”. Invece, anche avendo il coraggio di sfidare il paradigma corrente che considera comunque benefica questa vaccinazione, prima di promuovere campagne nazionali per la vaccinazione universale delle gravide è necessario effettuare ulteriori RCT ampi, pragmatici, indipendenti e con adeguata estensione temporale: solo con risultati ben più rassicuranti degli attuali sarebbe saggio procedere.

Fino ad allora, considerando che le prove siano ad oggi insufficienti anche per esprimere raccomandazioni contrarie, la vaccinazione antinfluenzale potrebbe essere offerta alle gravide, come agli anziani, ma solo dopo aver fornito un’adeguata informazione relativa alle incertezze sulla sua sicurezza, per consentire scelte davvero informate, e in aggiunta promuovendo anche altri comportamenti protettivi (Donzelli 2019 e 2018b).
L’informazione dovrebbe riguardare anche gli effetti avversi locali, non trascurabili come li si usa descrivere, come documenta anche il capitolo sull’influenza del volume del direttore dell’Institute for Scientific Freedom (Gøtzsche 2020).
9.2. In base a quanto illustrato, una eventuale vaccinazioneantinfluenzale obbligatoria delle gravide sarebbecostituzionale?
Dati i requisiti posti dalla Consulta riportati al punto 8., sembra difficile sostenerlo.

10 Ci sono prove da RCT

che la vaccinazione antinfluenzale dei bambini abbia più vantaggi che svantaggi?
Sui Quaderni dell’Associazione Culturale Pediatri/ACP si è tenuto un dibattito in merito alle 7 condizioni necessarie per introdurre una vaccinazione di massa come l’antinfluenzale per i bambini (Buzzetti e Cavallo 2018, Donzelli 2018c, Buzzetti 2018, Donzelli 2019). Li si ripropone anche per la valenza generale, applicabile a decisioni sull’introduzione di molte vaccinazioni di massa, anche destinate ad altre fasce di popolazione.
1) La malattia per cui si propone il vaccino deve essere sufficientemente grave. Gli autori riportano che nella stagione 2016-17 il numero totale di casi
gravi e confermati per influenza ricoverati in terapia intensiva sono stati 230 nell’intera popolazione italiana (95% con almeno un fattore di rischio), dei quali 68 deceduti (il 100% con fattori di rischio preesistenti) (Epicentro 2018); il 25% di queste persone era vaccinato. Nella stagione 2017-18 i casi gravi ricoverati in terapia intensiva sono stati 729, di cui 153 deceduti; 15 i casi gravi segnalati in donne gravide, con 2 decessi; 11 i bambini deceduti con meno di 14 anni. Nello stesso periodo di osservazione in Italia sono morte per tutte le cause più di 200.000 persone e tra queste alcune migliaia di bambini. Questo conforterebbe l’idea di vaccinare solo i soggetti a rischio e non tutti indiscriminatamente…
2) Il vaccino dev’essere efficace. Secondo la revisione Cochrane (Jefferson et al. 2018) 12 bambini dovrebbero in media essere vaccinati per evitare un caso di sindrome simil-influenzale (n.d.r.: che comprende i casi di influenza, clinicamente non distinguibili). Gli altri 11 riceverebbero tutti gli anni un’iniezione di vaccino senza ricavarne benefici. [NB: il numero di individui da vaccinare per evitare una sindrome influenzale dà un messaggio più comprensibile rispetto a quello di una percentuale di efficacia di un vaccino, che per essere intesa correttamente deve essere ricondotta anche alle probabilità
di sviluppare quella malattia in una data popolazione]
3) Il vaccino deve avere effetti avversi limitati per frequenza e gravità. I dati sugli eventi avversi [per i vaccini in commercio] non sono stati ben descritti negli studi disponibili. Sono necessari approcci standardizzati alla definizione, all’accertamento e alla segnalazione di eventi avversi (Jefferson et al. 2018). L’incidenza di otite media è probabilmente simile tra vaccinati e non vaccinati (31% verso 27%), sebbene gli intervalli di confidenza non escludano un importante aumento di otite media dopo la vaccinazione (RR 1.15, 95% IC 0,95-1,40; 884 partecipanti; prove di moderata certezza). [In seguito per altro si sono rilevati in Europa migliaia di casi di narcolessia (una patologia grave e incurabile) associati a uno dei vaccini antinfluenzali, il Pandemrix.] (Doshi 2018)
4) L’organizzazione dev’essere in grado di reggere. Il vaccino va somministrato tutti gli anni, e quindi bisogna prevedere un gran numero di somministrazioni vaccinali in più per ogni bambino che andrebbero ad aggiungersi al carico di lavoro di ASL o Pediatri di famiglia (che per queste vaccinazioni ricevono pagamenti extra).
5) Ci devono essere le risorse sufficienti. Si veda il punto 4. Gli autori concludono: le frequenti richieste di estensione dell’offerta attiva e gratuita, che hanno più volte incontrato la posizione contraria del Ministero, sostenuta dai dati oggettivi della letteratura scientifica e della sorveglianza epidemiologica, possono contribuire a rafforzare dubbi e sospetti nella popolazione, portando disorientamento e ricadute negative sulla credibilità di tutto il Sistema: il rischio è di rafforzare il fenomeno dell’esitazione vaccinale. E auspicano una maggior discussione, oggettiva e serena, su efficacia, incertezza, e una sana comunicazione verso le persone.
Il dibattito che ne è seguito, ha aggiunto altre due condizioni alle prime 5 (Donzelli 2018c e 2019):
6) Valutare gli effetti collaterali (avversi o benefici, anche aspecifici) con follow up ben maggiore di quello degli studi registrativi, con ricerche di disegno adeguato. Andrebbero
anche stimati possibili impatti ambientali, per modificazioni microbiche sotto la pressione selettiva di vaccinazioni universali (rimpiazzo ecologico di ceppi differenti, com’è stato per es. per pneumococco o H. inf!uenzae b).
7) (per stabilire le priorità) Effettuare una seria valutazione costo-opportunità. Una valutazione costo-opportunità rende ancor più discutibile l’offerta
generale gratuita di questa vaccinazione dai punti di vista della Società o di un SSN che voglia ottimizzare la resa in salute delle risorse assegnate dal Paese. Infatti, se la torta di risorse del Fondo Sanitario Nazionale ha perimetro fisso e una porzione per alcuni assistiti si allarga, si riducono le porzioni per altri. L’Economia sanitaria dovrebbe sempre prefigurare i risultati netti di ogni intervento allocativo: anche dove da un investimento si attendano benefici superiori ai danni diretti, al bilancio vanno sottratti i malefici che la corrispettiva riduzione di risorse genererà in altre parti del sistema. Senza scelte razionali su dove attingere per finanziare nuovi interventi, i tagli possono cadere alla cieca in aree già in sofferenza, compromettendo interventi con possibili rendimenti in salute maggiori o molto maggiori. Un’altra distorsione nelle valutazioni di Health Technology Assessment/HTA è l’impiego dell’ICER (Incremental cost-effectiveness ratio), costo incrementale per anno di vita guadagnato in condizioni di salute, o QALY, e considerare
soglie di accettabilità (es. € 50.000/QALY), sotto cui un intervento si considera
costo-efficace, da attivare. In Italia tale soglia è riferita a stime di costi medi/QALY (nella prospettiva del SSN o della Società), ma così la spesa sanitaria può solo aumentare; se poi la spesa ha perimetro bloccato, si verificherà quanto sopra descritto, con sottrazione di risorse ad altri interventi, che potrebbero avere rendimenti in salute maggiori e più certi. Inoltre usare per soglia di accettabilità un costo medio/QALY, viola il principio base dell’analisi economica costo-opportunità (Donaldson et al. 2002). Il confronto, infatti, non dovrebbe avvenire con il costo medio, ma con i costi minori/ QALY, cioè con le migliori alternative possibili. Molti altri semplici interventi sanitari avrebbero rese maggiori di nuove vaccinazioni indiscriminate: es. colloqui motivazionali o prescrizioni di esercizio per aumentare l’attività fisica degli assistiti, o 5’ di intervento breve + materiali di autoaiuto per smettere di fumare (Owen et al. 2011), da destinare ai fumatori in genere, e a genitori fumatori in particolare. Purtroppo, al di là di questi doverosi confronti, la vaccinazione antinfluenzale potrebbe comportare altri seri problemi riconducibili ai sopra citati punti 3) e
6), come un’interferenza virale.
10.1. È razionale introdurre la vaccinazione antinfluenzale nei bambini dai 6 mesi di vita, con due dosi di vaccino antinfluenzale, per il rischio di concomitanteepidemia di COVID-19?
Al punto 2.1. si sono già riportate le conclusioni della revisione sistematica Cochrane sull’antinfluenzale nei bambini (41 studi, oltre
200.000 partecipanti): per evitare 1 sindrome influenzale (ILI) 12 bambini di 2-16 anni devono ricevere vaccinazioni antinfluenzali (con virus inattivati). L’efficacia nei bambini inferiori ai 2 anni sembra ancor minore (Jefferson et al. 2018).
Poiché le sindromi influenzali (ILI) includono anche le vere influenze e non sono da queste distinguibili, si ritiene in pratica più corretto riferirsi ai risultati ottenibili sull’insieme delle sindromi influenzali.
In seguito sono stati pubblicati altri due studi: uno su 12 mila bambini, finanziato da GlaxoSmithKlein (Claeys et al. 2018) e con i principali ricercatori in relazioni finanziarie con lo sponsor (v. punto 5.2.), che paragonava il vaccino antinfluenzale con vaccino antipneumococco, antiepatite A o antivaricella, e che dunque sottostimava le reazioni indesiderate rispetto a un vero placebo o al non iniettare nulla. L’efficacia vaccinale (EV) nei confronti delle ILI è risultata modesta, con una riduzione del 13%. Il secondo studio, finanziato da Sanofi Pasteur (Pepin et al. 2019), aveva dipendenti dello sponsor come ricercatori principali, molti altri ricercatori in relazioni finanziarie con lo sponsor, ed è stato interrotto precocemente rispetto al protocollo “per benefici”: tutte condizioni mediamente associate con l’esagerazione di benefici e sicurezza di un farmaco, rispetto a studi sullo stesso prodotto che non presentino queste caratteristiche (v. punto 5.2.). Lo studio aveva per obiettivo dimostrare l’efficacia teorica nei confronti dei soli ceppi influenzali contenuti nel vaccino, e non ha riportato nulla rispetto alle ILI.
Per questi motivi si ritiene che i due suddetti studi non aggiungano nulla alle conclusioni della revisione Cochrane (Jefferson et al. 2018).
Quanto alla sostenibilità della proposta estensione della vaccinazione ai bambini, la media di 12 bambini da vaccinare per evitare 1 ILI va da un minimo di 11 a un massimo di 25 vaccinazioni (Jefferson et al. 2018) Trattandosi quasi sempre di bimbi mai prima vaccinati, occorrono due somministrazioni: dunque per evitare 1 ILI si dovrebbero praticare in media 24 iniezioni di vaccino (da 22 a 50). Ciò comporterebbe carichi di lavoro aggiuntivi pesanti per gli operatori, costi aggiuntivi per ore di lavoro di Centri vaccinali e compensi a Pediatri, oltre ai costi di vaccini da ripetere tutti gli anni. Per non parlare di reazioni indesiderate per i bambini (le sole reazioni in sede di iniezione interessano circa un bimbo su tre) (Pepin et al. 2019), e del tempo di vita e di lavoro perso per i genitori che li dovrebbero accompagnare. Il bilancio netto sembra decisamente sfavorevole.
A maggior ragione dopo aver verificato di quanto si riducano anche le diagnosi influenzali applicando le più sostenibili tra le misure non farmacologiche apprese durante la pandemia di COVID-19 (Sakamoto et al. 2019): maggiori attenzioni al distanziamento fisico nei mesi di massima circolazione influenzale, miglior igiene delle mani, ventilazione dei locali e accorgimenti con superfici critiche come i rubinetti a manopola (Donzelli e Giudicatti 2020), che meriterebbero di essere mantenute anche in un’auspicata era post-COVID.

11 La vaccinazione antinfluenzale può produrre effetto gregge e interrompere la catena epidemiologica dell’infezione?
Secondo la teoria dell’immunità di gregge la trasmissibilità delle malattie infettive si interrompe quando una parte della popolazione
sviluppa anticorpi protettivi nei confronti della malattia (herd immunity).

Tale immunità, conferita dal superamento della malattia naturale o da una vaccinazione, riduce la circolazione del patogeno e ne beneficiano
anche i soggetti ancora suscettibili.
L’immunità di gregge non è data dalla “somma” delle resistenze individuali, cioè non è proporzionale al numero di soggetti divenuti
immuni, ma “scatta” oltre una certa “soglia critica”, diversa in base alle caratteristiche dell’agente, quando il numero di soggetti immuni in un certo territorio è così alto che il microbo non può più propagarsi alla popolazione.

Il concetto di immunità di gregge si applica ad ampie comunità sociali in cui vari membri entrano in contatto reciproco. Non ha senso parlare di “immunità di gregge” in una comunità piccola e aperta. È ovvio che se un membro della famiglia è immune dalla malattia gli altri avranno meno probabilità di contrarla da tale membro, ma l’immunizzazione acquisita da un membro della famiglia non è condizione necessaria né sufficiente a proteggere la famiglia. Infatti, i vari membri della famiglia (o i bambini di una scuola) potrebbero contrarre la malattia da molti altri soggetti non immuni o portatori per quel microbo, con cui vengano a contatto nella vita quotidiana. In questi casi, la vaccinazione può essere raccomandabile, ma non interrompe la catena dei contagi.

La Guida all’uso dei farmaci, prodotta dal Ministero della Salute, Direzione Generale dei Farmaci e dei Dispositivi Medici, sulla base del
British National Formulary, 2003, paragrafo 14.4, pag. 517, recita: “dal momento che i vaccini antinfluenzali non controllano la diffusione della malattia, sono indicati solo nei soggetti ad alto rischio. (Ministero Salute 2003)” Anche la revisione Cochrane rileva l’assenza di prove che i vaccini prevengano la trasmissione virale (Demicheli et al. 2018).

Alcuni studi hanno valutato la capacità della vaccinazione dei bambini come strumento di protezione dei familiari conviventi non vaccinati. Questa ipotesi pare plausibile, perché è ovvio che se un soggetto del gruppo è immune, gli altri membri avranno un rischio minore di contrarre la malattia. Una revisione sistematica sulla vaccinazione antinfluenzale nell’infanzia ha suggerito che l’effettività della vaccinazione nei contatti non vaccinati (familiari) variava dal 24% al 30% (Jordan et al. 2006). Questo risultato, però, non giustifica un obbligo vaccinale per la fascia pediatrica per varie ragioni:
a) la prevenzione della malattia nei membri della famiglia non è affatto certa ed è persino inferiore al 50%, per cui un “sacrificio” di un
membro in favore degli altri avrebbe grandi probabilità di essere inutile;
b) in generale, salvo rare eccezioni, tutti i membri di una famiglia, volendo, possono vaccinarsi per prevenire l’influenza e non c’è
ragione di vaccinare un bambino per proteggere un adulto che non si vaccina;
c) se gli altri membri della famiglia non si vaccinano, possono contrarre la malattia da altri soggetti fuori dal nucleo familiare. Il rischio
di contrarre la malattia è legato, inoltre, alla reale efficacia della vaccinazione che non è mai totale, in nessuna classe di età.

La scelta di vaccinare i membri di un gruppo ristretto (ad esempio famiglia o classe di studenti) per ridurre leggermente il rischio di contrarre l’infezione in un soggetto che eventualmente non potrebbe vaccinarsi (caso comunque molto raro trattandosi di virus inattivati), è stata adottata in particolari casi (strategia del “bozzolo”), ma ha dato risultati deludenti (Blain et al. 2011). E comunque tale strategia non potrebbe essere imposta per obbligo: non sarebbe ammissibile obbligare una persona a vaccinarsi contro la propria volontà, solo per diminuire (in modo ipotetico) un rischio che si ammali un’altra persona vicina.

Una revisione sistematica più recente, di 9 RCT e 4 studi osservazionali, ha valutato se i programmi di vaccinazione antinfluenzale producano un effetto gregge, cioè se una protezione indiretta degli individui suscettibili al rischio di infezione derivi dalla presenza e vicinanza di soggetti immunizzati dalla vaccinazione (Mertz et al. 2016). La metanalisi degli RCT identificati, cioè degli studi di maggior validità (v. punto 5.), ha concluso “non si è potuto trovare alcun effetto gregge significativo sull’incidenza di influenza nei contatti”. “L’unico RCT condotto in un contesto di comunità, però, ha mostrato un effetto significativo (OR: 0,39; IC 95%: 0,26–0,57)”. Ma in questo caso si tratta di uno studio molto particolare, condotto in colonie rurali di Quaccheri canadesi (Loeb et al. 2010), con contatti limitati con il resto del paese; inoltre si riferisce alla sola influenza confermata in laboratorio, non all’insieme delle malattie respiratorie; si sono verificati 3 casi di ricoveri per bronchiti o polmoniti nel gruppo con antinfluenzale e 3 nel gruppo di controllo, senza morti.
Un’ulteriore revisione (Yin et al. 2017) sulla protezione indiretta conseguente a vaccinazione antinfluenzale dei bambini ha rimarcato che, nel citato RCT (Loeb et al. 2010) su colonie rurali di Quaccheri, vaccinando l’83% dei bambini, il 60% dei non vaccinati era protetto da influenza confermata in laboratorio (si ricorda però che questa è solo una parte minore delle ILI, circa 3 su 10 ILI in Italia, v. punto 1.). Nella metanalisi di RCT in cui si sono vaccinati bambini in età prescolare si è avuta una riduzione del 22% delle infezioni respiratorie o delle ILI. In altri contesti non si è potuta raggiungere una conclusione solida. Gli autori hanno concluso “la vaccinazione antinfluenzale dei bambini conferisce una protezione indiretta in alcune situazioni, ma non in tutte”.
Quanto ai “Conflitti di interesse potenziali” dichiarati, l’autore principale ha lasciato l’impiego all’Australian National Centre for Immunisation Research and Surveillance per diventare un dipendente della Sanofi Pasteur (Yin et al. 2017), caratteristica associata a quanto riportato al punto 5.2.

Sull’efficacia della vaccinazione antinfluenzale in età pediatrica si segnalano altre ricerche.
Una meno recente (Osterholm et al. 2010) ha concluso che “I vaccini influenzali possono offrire una protezione moderata contro l’influenza virologicamente confermata [NdA: che è solo parte minoritaria delle ILI], ma tale protezione è grandemente ridotta o assente in alcune stagioni. Le prove di protezione in adulti di 65 anni o più mancano…”.
Lo studio European I-MOVE (Valenciano et al. 2015) in 6 paesi dell’Unione Europea ha trovato un’efficacia complessiva contro l’influenza A(H1N1) del 47,5%, e del 29,7% contro l’influenza A(H3N2), utilizzando per altro un disegno di studio criticato per distorsioni intrinseche che possono generare una sovrastima dell’efficacia vaccinale (SaPeRiDoc, 2020).
La più recente valutazione dell’efficacia pratica in adulti e bambini della vaccinazione al termine della stagione influenzale 2017/18 nel Regno Unito (Pebody et al. 2019) ha riportato risultati mediocri e non significativi: EV 15% (da -6,3 a +32) per tutte le età, e 10,1 (da -54,8 a + 47,8) negli anziani =65, oltretutto usando l’approccio caso-controllo test-negativo, criticato per la possibilità di sovrastimare l’efficacia vaccinale (SaPeRiDoc, 2020).

Si segnala infine che, in uno studio per rilevare virus infettivi nel respiro di 178 giovani adulti volontari con sintomi influenzali, l’aerosol fine del respiro esalato ha mostrato una diffusione virale in tendenza maggiore in chi ha riferito una vaccinazione antinfluenzale nella stagione in corso, come pure una vaccinazione antinfluenzale nel solo anno precedente, mentre in chi ha riferito una vaccinazione antinfluenzale sia nella stagione in corso che in quella precedente la diffusione virale è risultata significativamente maggiore rispetto ai non vaccinati: 6,3 volte di più (con intervalli di confidenza da 1,9 a 21,5 volte) (Yan et al. 2018). Questo è un motivo in più per considerare la vaccinazione come protettiva per i singoli che si vaccinano, ma non utilizzabile come mezzo di controllo della catena epidemiologica in una popolazione.

12 La vaccinazione antinfluenzale

può dare interferenza virale, e in particolare aumentare altre infezioni virali?
Nei vaccinati contro l’influenza può esserci un rischio di eccesso di altre malattie virali.
Sul tema risulta disponibile un solo RCT, in 115 bambini (Cowling et al. 2012), randomizzati a una vaccinazione antinfluenzale o a un placebo.
Nei successivi 9 mesi (dunque con follow-up molto più lungo di quello dei correnti RCT sull’immunogenicità dei vaccini, che spesso si limitano a poche settimane di follow-up dopo la somministrazione), i bambini sono risultati più protetti rispetto all’influenza (30 influenze stagionali in meno rispetto al placebo), ma hanno avuto un eccesso significativo di altre infezioni virali confermate virologicamente (+302 altre infezioni da virus non influenzali). Fino ad eventuali altri RCT di segno diverso che ne ribaltino i risultati, questo RCT mette radicalmente in dubbio l’opportunità dell’antinfluenzale in età pediatrica.

Anche nello studio di coorte MoSAIC (Rikin et al. 2018) si è osservato lo stesso fenomeno su quasi 700 bambini: dopo la vaccinazione
antinfluenzale c’è stato un aumento di malattie respiratorie acute causate da patogeni non influenzali rispetto ai soggetti non vaccinati,
statisticamente significativo nel triennio considerato (HR corretto 1,65;
IC 1,14-2,38). Un limite di questo studio è il follow-up limitato a 14 giorni post-vaccinazione, che non dà l’idea – come invece nel RCT (Cowling et al. 2018) sopra ricordato – di quale possa essere l’effetto netto a lungo termine della vaccinazione antinfluenzale sull’insieme delle malattie respiratorie acute.
Per altro, l’interferenza virale è stata rilevata anche in adulti militari USA (Wolff 2020). I vaccinati con antinfluenzale hanno mostrato meno
influenze, e significativamente meno parainfluenze e infezioni da virus respiratorio sinciziale, ma un aumento significativo di infezioni da
46 Alberto Donzelli et Al.

coronavirus (+36%, anche se non circolava ancora il SARS-CoV-2), da metapneumovirus (+56%) e dall’insieme dei virus non-influenzali (+15%), oltre a un aumento quantitativamente ancor maggiore di malattie respiratorie in cui non si è potuto identificare il patogeno (+59%). L’eccesso netto di patologie respiratorie nei vaccinati è risultato importante.

Il fatto che nei vaccinati siano aumentate, tra l’altro, infezioni da coronavirus, dovrebbe indurre alla prudenza.

Indagini di associazione mostrano in Spagna una relazione diretta tra vaccinazioni antinfluenzali nei diversi territori e decessi da COVID-19 (figura 12.2 – Machado 2020).
Figura 12.2. Relazione tra decessi da COVID-19 e coperture da vaccino antin­fluenzale in località della Spagna (tratta da Machado 2020)

L’autrice propone una diversa spiegazione: gli individui salvati dalla vaccinazione antinfluenzale, in genere anziani in cattive condizioni di salute, resterebbero in vita, e pertanto potrebbero essere uccisi dalla COVID-19. Tuttavia la relazione riscontrata andrebbe verificata/resa pubblica anche per l’Italia (quesiti in tal senso, disponibili a richiesta, sono stati formulati all’ISS il 22/3/2020 e il 20/4/2020), e dovrebbe indurrea grandissima prudenza. È doveroso aggiungere che uno studio accettato per la pubblicazione (Skowronski et al. 2020) relativo a sette stagioni influenzali in Canada nega una significativa interferenza virale e critica il metodo usato nello studio sui militari USA (Wolff 2020). Anche lo studio canadese, però, che usa il disegno “influenza test-positivi vs controlli test-negativi”, non chiude il dibattito, anche perché continua a mostrare un modico eccesso di infezioni da virus non influenzali nei vaccinati contro
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l’influenza, benché nell’analisi aggiustata l’eccesso si attenui e perda la significatività statistica (OR 1,11; 0,99-1,26).

12.1. In base a quanto illustrato, un’eventuale vaccinazioneantinfluenzale obbligatoria dei bambini sarebbecostituzionale?
Con riferimento a quanto illustrato ai punti 10.-12. e dati i requisiti posti dalla Consulta riportati al punto 8., sembra difficile sostenerlo.

13 Ci sono prove che la vaccinazione

antinfluenzale del personalesanitario abbia più vantaggi chesvantaggi?
L’idea che vaccinare il personale sanitario serva a proteggere i pazienti vulnerabili sembra intuitiva. In realtà le prove da revisioni sistematiche di RCT scarseggiano e non sono conclusive neppure nel contesto di lungodegenze per anziani (Thomas et al. 2016), dove vi sono i pazienti più vulnerabili, che dovrebbero mostrare i vantaggi maggiori. La revisione sistematica Cochrane (Thomas et al. 2016) conclude:
“L’offerta di vaccinazione antinfluenzale a personale sanitario che assista anziani in lungodegenze può avere effetto piccolo o nullo sull’influenza confermata in laboratorio (prove di bassa qualità).

Programmi vaccinali per questi operatori probabilmente hanno un piccolo effetto sulle infezioni del tratto respiratorio inferiore (prove di qualità moderata), ma possono avere effetto piccolo o nullo sui ricoveri ospedalieri. Non è chiaro l’effetto sulla mortalità respiratoria o totale (prove di qualità molto bassa)”.

È vero che l’offerta di vaccinazione ha dato coperture vaccinali inferiori a quanto avrebbe ottenuto un obbligo a vaccinarsi, e ciò può aver ridotto il beneficio riscontrato. Tuttavia possono agire in direzione opposta, cioè ampliare artificialmente il beneficio rilevato, limiti metodologici dei RCT su questo tema, come il fatto che dai valutatori siano definiti poco chiari mascheramento dell’allocazione e cecità nei pochi RCT disponibili su questi lavoratori (Thomas et al. 2016): è documentato che i limiti nel mascheramento dell’allocazione e nella cecità comportano un’esagerazione sistematica dei benefici dell’intervento. Le prove disponibili sono considerate dai revisori “a serio rischio di distorsione”(Thomas et al. 2016). È in corso un dibattito scientifico sull’inadeguatezza delle prove a supporto di provvedimenti coercitivi, e su come interpretarle (De Serres et al. 2018).

Uno degli argomenti invocati per rendere obbligatoria la vaccinazione del personale sanitario è anche il risparmio in giornate lavorative che si perderebbero per influenza, con il rischio di sguarnire servizi essenziali. Anche questo argomento, però, è poco rilevante. Infatti i risultati, molto eterogenei, dei RCT sul tema, metanalizzati nella revisione Cochrane su soggetti adulti sani di 16-65 anni, sono minimi: la vaccinazione farebbe in media risparmiare ~4% di una giornata lavorativa (Demicheli et al. 2018). Se la giornata fosse di 8 ore, cioè di 480 minuti, un risparmio medio della vaccinazione del 4% si tradurrebbe in meno di 20’ risparmiati una tantum (da cui andrebbe ulteriormente detratto il tempo di servizio, modesto in un ospedale, maggiore altrove, per spostarsi dalla propria sede operativa al punto di vaccinazione, oltre all’eventuale attesa di ricevere la prestazione e al tempo di inoculazione) (Demicheli et al. 2018). Inoltre, se parte dei sanitari ricevesse vaccini ad alta dose e sperimentasse eventi avversi “banali” in proporzioni simili a quelle riportate al punto 7.3. per gli ultra65enni nel RCT (Chang et al. 2019) di Sanofi-Pasteur (ad es., se in qualche punto % riportassero eventi avversi locali di grado 2 “richiedenti interventi terapeutici addizionali, interferenti con le normali attività ma senza rischi permanenti”, o di grado 3, che “hanno interrotto le attività quotidiane, interessato lo stato clinico in modo significativo, o richiesto un intervento terapeutico intensivo”), è plausibile che l’operatività di questi operatori sanitari ne uscirebbe indebolita.

Inoltre è il rischio dibattuto di un’interferenza virale a giocare contro la scelta di un obbligo vaccinale senza valide prove: infatti i dati mostrano che ci sarebbe la possibilità di veder aumentare in misura più che proporzionale le patologie respiratorie da altri virus, non influenzali (vedi punto 12.), con effetto addirittura opposto a quello che si intende raggiungere.
Sarebbe tuttavia una buona occasione per disegnare in modo appropriato qualche ampio RCT in doppio cieco, da attuare con ricercatori indipendenti in strutture sanitarie per anziani, ma anche in qualche ospedale, e nel contesto della Medicina Generale, con randomizzazione di un numero sufficiente di MMG, per acquisire prove chiare sull’efficacia di una vaccinazione degli operatori sanitari (sia contro l’influenza, sia per altre patologie contagiose, con priorità per la vaccinazione antimorbillo), per quantificare l’entità dell’effetto, e stabilire con cura i benefici ottenuti, i possibili rischi e i costi, in modo da poter decidere conseguenti interventi di sanità pubblica in base a informazioni valide (Donzelli 2017).

Nell’attesa dei risultati di tali RCT, si potrebbero intanto disseminare i forti messaggi di:

  • lavare le mani spesso, insegnando a chiudere le leve dei rubinetti con l’avambraccio o il taglio della mano e sostituendo i rubinetti a manopola (Donzelli e Giudicatti 2020). In caso di indisponibilità, usare igienizzanti a base alcolica
  • fare uso di mezzi fisici di protezione e del distanziamento fisico, di
  • efficacia documentata (Jefferson et al. 2009) [NdA: nei confronti degli operatori mezzi di protezione personali come visiere o altre protezioni oculari, mascherine, ecc. hanno dimostrato un’indiscussa efficacia protettiva (Chu 2020), e il NNT di tali mezzi fisici sembra assai più favorevole rispetto al NNV da vaccino antinfluenzale, ben­ché ciò appaia da confronti indiretti (Jefferson 2009)]
  • restare a casa quando si è ammalati (per gli operatori) ed evitare l’uso improprio di antipiretici, per infezioni banali, poiché la febbre è un efficace meccanismo di difesa contro i patogeni. Un aumento di temperatura da 37° a 38° C può ridurre la moltiplicazione dei virus di oltre 90%, e per la maggior parte di loro un ulteriore aumento arresta la moltiplicazione. La soppressione della febbre facilita la trasmissione di comuni infezioni: ad es. vi è chi ha calcolato che nell’influenza stagionale sopprimere la febbre possa aumentare del 5% i casi di malattia e le morti nella popolazione (Earn et al. 2014)

13.1. In base a quanto illustrato, una vaccinazione
antinfluenzale obbligatoria del personale sanitario sarebbecostituzionale?
Dati i requisiti posti dalla Consulta riportati al punto 8., non sembra facile sostenerlo.

Per i lavoratori ci può essere un ulteriore conflitto normativo, con il Dlgs 81/2008 (testo unico sulla sicurezza sul lavoro), titolo X, che regola l’impiego di vaccinazioni sui lavoratori (del comparto sanitario come di altri comparti) quale forma di “prevenzione e controllo” dall’esposizione ad agenti biologici.

In particolare l’art. 279 prevede che “il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misura protettive particolari per i lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, tra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente …”. Il tutto con l’informazione al singolo lavoratore “sui vantaggi e inconvenienti della vaccinazione e della non vaccinazione”.

La premessa di tale previsione normativa – da valutare e applicare nel concreto della singola azienda – è che il documento di valutazione dei rischi faccia emergere specifici rischi da esposizione ad agenti biologici in quel luogo di lavoro e la presenza di lavoratori particolarmente a rischio (oggi diremmo “fragili”, utilizzando il termine previsto nei protocolli antiCovid-19 tra le parti sociali).
Le caratteristiche esogene del Sars-Cov2, cioè di un agente biologico incluso negli elenchi del Dlgs 81/2008, ma non presente in modo generalizzato nei luoghi di lavoro in termini di manipolazione voluta (es. industria farmaceutica, biotecnologie ecc.) o come rischio connesso all’attività (impianti di depurazione, attività sanitarie, allevamenti ecc.) stanno facendo discutere sull’obbligo o meno di tutti i datori di lavoro di aggiornare il documento di valutazione dei rischi con questo nuovo pericolo, oppure se tale adempimento non sia dovuto e l’attuazione del “protocollo antiCovid” (i protocolli tra le parti sociali, da quello del 14.03.2020 a quelli successivi e di filiera) sia di per sé sufficiente per quanto provvisoria.

L’interpretazione vigente è che il Sars-Cov2 non sia da considerare come rischio lavorativo da agente biologico, ma che gli effetti sulle modalità lavorative siano dovuti solo in virtù dei provvedimenti emergenziali che “sostituiscono” e definiscono a priori gli obblighi dei datori di lavoro nelle diverse fasi di regolazione delle attività economiche a fronte degli effetti pandemici.
Secondo questa interpretazione, pertanto, solo nelle attività che già in precedenza erano soggette alla considerazione del rischio da agenti biologici si potrebbe valutare la necessità di “vaccinazioni efficaci” comunque e sempre a partire dalla valutazione del singolo medico competente, rispetto a una platea non generalizzata di lavoratori e, in sostanza, con il loro consenso come nel contesto di una revisione del documento di valutazione dei rischi della singola attività.

Vi sono pochi esempi in cui vaccinazioni in ambito lavorativo costituiscono un obbligo generalizzato: la vaccinazione antitetanica è prevista per una serie di lavorazioni (a partire da quelle edilizie) in base alla legge 292 del 5.03.1963 (l’elenco delle attività sono indicate in due DM del 1975); la vaccinazione antitubercolare è dovuta per alcune attività in ambito sanitario (Dpr 465 del 7.11.2001), come pure la vaccinazione antiepatite B (DM 22.12.1988). Vi è anche la vaccinazione antitifica, obbligatoria in alcune produzioni fino alla legge 388/2000, con cui la potestà di prevederla è stata lasciata alle singole regioni.

Non vi è nulla nella normativa sulla sicurezza del lavoro che permetta di introdurre un obbligo generalizzato, anche solo per alcune attività, tanto più se l’atto che determina l’obbligo è di livello regionale per vaccinazioni di qualunque genere (ancorché “efficaci”).
L’argomento, nell’ambito lavorativo, è dentro il DLgs 81/2008 (ma con ogni probabilità anche nello Statuto dei Diritti dei Lavoratori che vieta gli accertamenti sanitari nei confronti dei lavoratori da parte dei datori di lavoro) e quindi può essere modificato in senso prescrittivo generalizzato solo da un atto del Parlamento.

Altro discorso è che, in ogni luogo di lavoro e tenendo conto delle caratteristiche dei rischi aziendali come pure dello stato di salute del singolo lavoratore, il singolo medico competente arrivi a proporre – all’esito della valutazione dei rischi – tra le misure di “prevenzione e controllo” alcune vaccinazioni “efficaci” (condizione che, per quanto discusso in questo documento, non sembrano rispettate dai vaccini antiinfluenzali proposti). La decisione è comunque del medico competente, nell’ambito di una dialettica che coinvolge il responsabile del servizio di prevenzione e protezione nonché il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, non il presidente di una regione.

14 Vi sono misure fisiche o legate allo stile di vita per limitare le infezioni respiratorie?
Rendere più mirata (non universale) la vaccinazione antinfluenzale non significa lasciare le persone senza difese, e Sanità pubblica e cure primarie dovrebbero promuovere anche molte altre utili misure, comunque efficaci nel ridurre la possibilità di ammalarsi (anche in chi non potesse vaccinarsi o in coloro in cui il vaccino non funzionasse).
Le misure igieniche raccomandate in occasione della pandemia di COVID-19 sono risultate molto efficaci anche per ridurre sindromi influenzali e altre malattie infettive respiratorie (Sakamoto et al. 2020): oltre a quanto richiamato per i sanitari alla fine del punto 13., evitare di toccarsi le mucose di occhi, naso e bocca; stare a distanza da persone malate o sospettate di avere in corso un’infezione respiratoria; far sì che siano altri a prendersi cura di persone malate che si pensa abbiano contratto sindromi influenzali in ambito familiare; incoraggiare buone misure preventive, quali coprire la bocca quando si tossisce o starnutisce (con un fazzoletto di carta o con l’incavo del gomito), evitare strette di mano e contatti diretti.

Altre misure utili possono essere:

  • non fumare ed evitare ambienti in cui si fuma (Lee et al. 2010). I fumatori sono più soggetti a infezioni, malattie e complicazioni respiratorie (Nuorti et al. 2000), anche da COVID-19 (Vardavas e Nikitara 2020).
  • In caso di malattie infettive, evitare per quanto possibile antipiretici per trattare la febbre: potrebbero aumentare ed estendere la tra­smissione delle infezioni associate (Plaisance et al. 2000, Earn et al. 2014).
  • Adottare altre abitudini salutari: evitare lavoro eccessivo e assicurar­
  • si un riposo adeguato, perché lo stress abbassa le difese. Mangiare e bere cibi salutari è di utilità dimostrata anche contro le infezioni (ad es. adottare un modello alimentare mediterraneo a base vegetale, ricco di cereali integrali (Aune et al. 2016a), noci e frutta secca oleo­sa (Aune et al. 2016b), frutta e verdura (Aune et al. 2017); povero di carni rosse e lavorate (Etemadi et al. 2017); allattare a lungo al seno i bambini (Ip et al. 2007); praticare regolare esercizio fisico (Chakra­varty et al. 2008), evitando l’eccesso, per mantenere una funzionalità immunitaria ottimale (Gonçalves et al. 2020).
  • Evitare per quanto possibile ambienti chiusi e affollati nelle settimane in cui l’epidemia di influenza si verifica a livello locale, preferendo orari con poca affluenza, indossare mascherine in ambienti chiusi aperti al pubblico dove la distanza non si può mantenere (Jefferson et al. 2009).

Conclusioni

Quando si decide un provvedimento di sanità pubblica, destinato a individui “sani” (cioè che non stanno richiedendo un intervento medico per problemi di salute in atto), ancor più se generalizzato, e a maggior ragione se vincolante, vale la lezione di un maestro di epidemiologia (Rose 1992): una “misura preventiva di massa del 2° tipo” che consiste nell’“aggiungere qualche altro fattore artificiale nella speranza di fornire una protezione […] Comprende l’uso di farmaci […], le vaccinazioni e l’impiego di dosi non fisiologiche di sostanze naturali […] Non si può presumere a priori che queste misure siano sicure, dunque le prove del beneficio e in particolare della sicurezza dovranno essere stringenti. Ciò esclude di fatto l’impiego di questo tipo di misure, salvo là dove il vantaggio offerto sia piuttosto grande, ad esempio in gruppi ad alto rischio, o per rischi comuni o gravi.

Esse si possono applicare a una condizione: che i destinatari siano informati degli aspetti noti così come delle incertezze…”.
Questa lezione vale anche per la vaccinazione antinfluenzale. Al di fuori di gruppi ad alto rischio con solide prove di benefici netti (v. punto 6. e seguenti), per la generalità di anziani, (adulti e) donne gravide, bambini e personale sanitario vi sono ancora sostanziali incertezze sul bilancio tra possibili benefici e danni. Le prove disponibili andrebbero vagliate in un confronto scientifico aperto anche ai contributi di posizioni scientifiche oggi di minoranza, secondo un nuovo modello epistemologico di scienza da affiancare alla “scienza normale” (Kuhn 1969), che andrebbe utilizzato quando «i fatti sono incerti, i valori in discussione, gli interessi elevati e le decisioni urgenti» (Futowicz e Ravetz 1997).

Pensiamo che aprire la discussione, con l’onere della prova, su “verità” date per scontate e paradigmi non sia un atteggiamento antiscientifico, anzi riteniamo che sia una condizione per lo sviluppo della scienza. Riteniamo che i rappresentanti politici abbiano la responsabilità di assicurare un ambiente antidogmatico favorevole a un dibattito scientifico libero, trasparente, esente da conflitti d’interessi, che metta un impegno razionale nel risolvere i problemi tenendo conto di priorità basate sui dati.
In attesa che ampi RCT pragmatici, indipendenti da sponsor commerciali, con gruppi di controllo appropriati e follow-up esteso, chiariscano se vi siano benefici netti e la loro entità per le popolazioni cui questa vaccinazione è proposta, le prove scientifiche qui documentate consigliano di rinunciare all’obbligo e una moratoria sull’estensione della vaccinazione. Si ritiene che l’antinfluenzale possa ancora essere offerta in modo gratuito a coloro che liberamente la richiedono, purché siano informati in modo bilanciato delle incertezze esistenti, per consentire davvero una scelta e un consenso informati, principio cardine per qualsiasi attività sanitaria, che ne costituisce la legittimazione (Lavra 2017).

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